Questa pianta australiana supera i 900 anni e non ha paura del fuoco; anzi trae vantaggio dagli incendi. Serve a fabbricare polvere da sparo e vernici. Analizzando, a varie altezze dal suolo, i mozziconi delle foglie, si può determinare l’evoluzione dell’inquinamento e della radioattività dell’aria.
Testo © Giuseppe Mazza
Una pianta che ha fatto un patto col diavolo : se c’è, senza dubbio è il Blackboy.
Supera i 900 anni, non teme il fuoco, e vive sulle disgrazie altrui.
Quando si apre, dopo un incendio, circondato dalla desolazione e dalla morte, il suo seme nero-mogano ha ben pochi concorrenti intorno. Butta fuori di lato un fusticino verde, che punta subito verso il basso, e solo dopo qualche giorno, dal gomito che scende agli inferi, spunta una piccola spada destinata a trasformarsi col tempo in un fascio di foglioline filiformi, ondeggianti al livello del suolo.
Sotto intanto si è sviluppata una strana radice, che i botanici chiamano “contrattile”.
Periodicamente si restringe e fa scendere il fusto, di modo che nei primi anni questo cresce sempre infossato, lontano da eventuali incendi.
Quando finalmente affiora, dopo alcuni decenni, la pianta ha ormai creato un’elegante chioma emisferica, e le vecchie foglie, rinsecchite, si ripiegano sul tronco simili a un gonnellino da danzatrice hula.
Impregnate come cerini d’essenze infiammabili, bruciano in un attimo e proteggono con le loro ceneri il fusto. Così, passato il fuoco, i Blackboy sono fra i rari superstiti del bush australiano : sagome nere isolate con un ciuffetto di foglie in testa; giovani aborigeni, come vuole il nome inglese, sperduti all’orizzonte.
Più prosaicamente i botanici hanno coniato per questa strana pianta il genere Xanthorrhoea, dal greco “xanthòs” (giallo) e “rheo” (colare), con riferimento alla resina giallognola che sgorga dalle ferite del tronco.
Veniva usata dagli indigeni come colla per consolidare le punte delle lance, e con più raffinata tecnologia, ma sempre per uccidere, dagli europei. Contiene infatti acido pirico, e negli anni precedenti la prima guerra mondiale oltre 200 tonnellate di resina di Blackboy furono esportate in Germania per la produzione di polvere da sparo.
Prima della nascita dei coloranti sintetici, trovava impiego, in falegnameria, anche nella preparazione di vernici allo spirito, gialle o rosse, in grado di dare un tocco di nobiltà ai legni meno pregiati.
Ma se ai coloni serviva a far soldi, spesso per gli aborigeni il Blackboy era la vita. Dalla parte bassa del tronco, consistente e tenera, ricavavano ciotole e oggetti in legno, e sfregando fra loro le foglie secche, accendevano facilmente il fuoco.
Secondo un’antica leggenda, questo prezioso dono degli abitanti del cielo, era giunto sulla terra con un uccello che l’aveva tolto a un vulcano. Ardeva in un “bastoncino infuocato” affidato a un uomo, Kondole, per accendere ogni sera la fiamma delle cerimonie sacre, e questi, volendolo tutto per sé, lo nascose. Gli spiriti lo punirono per l’ingordigia, trasformandolo in una balena, ma intanto il fuoco era sparito dalla terra : gli uomini non potevano più cucinare, scaldarsi e difendersi dagli spiriti maligni della notte.
Un compagno di Kondole, Tudrun, partì quindi alla ricerca del magico bastoncino. Vagò per giorni e giorni finché, scoraggiato e stanco, fu colpito da un bagliore e lo trovò in un Blackboy ardente.
Così l’albero divenne sacro. Al limite del grande deserto, dove la natura è avara di risorse, la “pianta erba” dava calore, legno, colla e utensili; e persino in fin di vita era prodiga di doni.
Quando uno di questi matusalemmi sta per morire, si forma infatti al suo interno una misteriosa crema bianca commestibile, che si può estrarre con un foro e consumare cotta o cruda.
Nella vittoria dei Blackboy sugli incendi, e nelle sue gigantesche infiorescenze falliche, alte anche 5 m, gli indigeni vedevano poi il trionfo della vita sulla morte e il simbolo della virilità.
Hanno un diametro di 4-5 cm, e crescono a vista d’occhio, 7-10 cm al giorno. Una “performance” davvero incredibile per delle specie xerofite di taglia modesta, che debbono fare ogni giorno i conti con la siccità e temperature elevatissime.
I fiori delle Xanthorrhoea, piccoli e bianchi, quasi sessili, disposti come le foglie a spirale, sbocciano in genere nella primavera australe, fra agosto e novembre. Spuntano prima sul lato nord del “palo”, e partendo dal basso, lo tappezzano un po’ alla volta con migliaia di “stelle” : bianchi stami filiformi fra il verde tenero dei boccioli; richiami luminosi per sedurre gli insetti e gli uccelli con un nettare dolce e abbondantissimo.
La fioritura è indipendente dagli incendi, ma è provato che questi la favoriscono, anticipandola di circa 80 giorni.
Al celebre Kings Park Botanic Garden di Perth, dove col metodo del carbonio radioattivo sono stati fatti seri studi sull’età dei Blackboy, il Dr. Paul Wycherley mi spiega che reagiscono in modo analogo anche se vengono spogliati dalle foglie o si irrora d’etilene il ciuffo centrale.
Si direbbe che come sentono la rovina e la morte intorno a loro, si affrettino a riprodursi, certi di trarne vantaggio.
Una pianta filogeneticamente molto vicina, la Kingia australis, si distingue dai Blackboy per il tronco più snello, che può raggiungere i 10 m d’altezza, e le infiorescenze a forma di clava, lunghe al massimo 30 cm, poste a corona intorno al ciuffo. La fioritura, meno regolare che nelle Xanthorrhoea, sembra ancor più legata al fuoco.
La misteriosa biologia di queste specie è ancora tutta da studiare, ma al di là dell’interesse botanico o estetico, è certo che con la loro crescita lentissima rendono un prezioso servizio all’uomo moderno.
I mozziconi bruciacchiati delle foglie restano infatti incastonati nel tronco per per tutta la vita della pianta, e dato che questa cresce regolarmente 5-10 mm all’anno, secondo la specie, prelevandoli a varie altezze e analizzandoli si può determinare con precisione il tasso d’inquinamento e la radioattività dell’aria dell’ultimo millennio.
Il Blackboy diventa così un “barometro ecologico”, e nei preziosi bastoncini di Kondole, c’è d’augurarselo, gli scienziati leggeranno fra qualche secolo la storia della nostra civiltà.
SCIENCES ET NATURE + SCIENZA & VITA NUOVA – 1991