Vischio la pianta augurale dai mille segreti. Vive alle spalle di 170 piante diverse, ma non è un parassita. Storia e leggende. I fiori profumano di fior d’arancio. Impieghi medicinali.
Testo © Giuseppe Mazza
Baciarsi sotto un vischio a Capodanno porta buono.
I rami e le foglie, verdi come la vita in pieno inverno, quando la natura è tutta spenta intorno, sembrano addobbati a festa, come l’albero di Natale, per la nascita del Bambino Gesù; ma anche se per motivi stagionali e simbolici questa pianta avrebbe potuto benissimo essere “cristianizzata”, è rimasta rigorosamente “pagana”, residuo di culti e credenze antichissime.
Per i Greci il vischio era la “chiave” usata ogni anno da Persèfone per raggiungere il marito all’inferno nei mesi invernali; ed è con un rametto di vischio in mano che Enea convince Caronte a fargli attraversare lo Stige per incontrare il padre Anchise nel regno dei morti.
Era insomma il lascia-passare per l’al di là, quello che permetteva d’andarci e poi, soprattutto, di tornare indietro.
Gli antichi popoli germanici erano decisamente meno ottimisti. Stando alla leggenda di Baldo, il bellissimo e invulnerabile figlio del dio Odino, ucciso per invidia con una freccia di legno di vischio, questo misterioso alberello, l’unico che essendo troppo giovane non aveva giurato di rispettarlo, rappresentava lo spegnersi della luce solare, e quindi la morte.
Ma per i Celti, al contrario, il vischio era,”Colui che guarisce tutto”, il simbolo della vita che trionfa sul torpore invernale.
Immagini opposte, ma non poi così lontane, che qui si sovrappongono, perché non è facile separare il bene dal male, l’inizio dalla fine, la morte del seme dalla nascita della nuova pianta.
Nella lunga notte del solstizio d’inverno, ci racconta Plinio il Vecchio, i sacerdoti celti, vestiti di bianco, lo tagliavano solennemente con un falcetto dorato, e raccogliendo il cespo al volo, su un lenzuolo bianco, gridavano “O Ghel an Heu”, cioè “Germogli il grano”. Espressione che è diventata poi “Au gui l’an neuf”, cioè “Al vischio l’anno nuovo”, frase ben augurante che è giunta nella sostanza fino a noi, confermata dalle credenze medioevali della “teoria dei segni”.
Si riteneva infatti che il buon Dio, creando le piante, avesse lasciato dei segni, dei messaggi all’uomo, per svelarne l’utilità.
E sotto questo aspetto il vischio era una vera miniera. Dato che non tocca mai il suolo, serviva a curare gli epilettici, che cadono spesso a terra (la medicina moderna gli ha in effetti riconosciuto un’azione sedativa, che s’inverte però con la dose), e dato che i suoi frutti maturano in nove mesi, il tempo della gravidanza umana, e che contengono un liquido bianco e appiccicoso, simile allo sperma, si era convinti che fosse un sicuro rimedio alla sterilità delle donne e del bestiame in genere (all’ epoca non si faceva molta differenza).
Infine, visto che nel punto di attacco la pianta ospite si gonfia, quasi avesse un tumore, doveva curare anche quest’ultimi.
E per quanto possa sembrare assurdo, oggi le proprietà anticancerogene del vischio sono state provate e verificate clinicamente. Sta di fatto che la pianta ospite si difende creando un tessuto spesso, ricco di tannino, che impedisce al vischio d’avanzare, e che questo a sua volta reagisce con un prodotto inibente la divisione cellulare, che frena la crescita del legno e quindi anche dei tumori.
Ma vediamo bene, da vicino, cos’è botanicamente il vischio.
Un parassita ?
Si e no, perché i veri parassiti, come le nostre orobanche che succhiano il nutrimento dalle radici dell’edera, delle leguminose, e di molte altre piante, sono senza clorofilla, non presentano cioè parti verdi.
E il vischio di clorofilla ne ha fin troppa : non solo nelle foglie, ma anche nel tronco, nell’embrione, e persino nelle radici che scendono verso l’ospite.
Il lavoro che da sempre la natura ha assegnato alle piante è fare la fotosintesi, combinare cioè l’acqua e i minerali prelevati nel suolo con l’anidride carbonica dell’aria, per trasformarli, col sole e la clorofilla, in “carne vegetale” in materia vivente. E questo il vischio lo fa; solo che anziché prendere l’acqua dal terreno la preleva dall’ospite.
Un po’ come le Euphrasia, i Melampyrum e i Rhinanthus dei campi: piante verdi, a corto di radici, che si attaccano, per fare provviste d’acqua, a quelle delle erbe e degli arbusti accanto. Un fenomeno sostanzialmente identico, anche se meno vistoso perché si svolge tutto nel sottosuolo.
E poi, come fra gli uomini, c’è parassita e parassita : dalla totale dipendenza, allo sfruttamento occasionale.
L’arte di far lavorare gli altri è un’arte antica, sottile, che richiede astuzia e lungimiranza : il parassita non può, come un volgare predatore, permettersi il lusso d’uccidere l’ospite. La morte della gallina dalle uova d’oro è anche, quasi sempre, la sua fine; e a meno d’essere una cuscuta, che diventa gialla e non lavora quando può succhiare una pianta, e torna verde e fa la fotosintesi se l’ospite muore, in natura, molto più che fra gli uomini, le “riconversioni” sono difficili.
Senza il suo albero il vischio è morto, ma consapevole com’è di questo rischio, adotta due strategie di sopravvivenza : anzitutto non perde la capacità di fare la fotosintesi, nel caso che in un domani (non si sa mai !) impari a vivere al suolo, e poi si guarda bene dal legarsi, come fanno i parassiti più sprovveduti, ad una sola specie di piante.
Anche se le preferenze del Viscum album vanno decisamente al melo, ai pioppi, al salice, al sorbo e all’acero, specie con la corteccia sottile, facile d’attraversare, accetta come ospiti almeno 170 tipi d’alberi, e attacca, con due razze, anche le conifere.
Inoltre fa il possibile per non uccidere la pianta ospite, che ripaga, in moneta sonante, per l’acqua che beve.
È stato fatto, in merito, un’interessante esperimento. Se in primavera si tagliano, una ad una, tutte le foglie di un albero, questo muore; ma se ospita un vischio, anche ripetendo l’operazione per più anni di seguito, resta sempre in vita.
Segno che questo lo nutre, che fa la fotosintesi per lui.
E dal parassitismo si passa allora alla collaborazione e alla simbiosi : la natura è decisamente molto meno schematica di noi.
Oggi i botanici, come del resto i vecchi contadini, ritengono che entro certi limiti, il presunto “parassita” faccia addirittura bene all’ospite : è una questione di misura, e mamma vischio, che lo sa, fa di tutto perché i suoi bambini crescano lontani su altri alberi.
“Mamma vischio”, perché questa pianta è dioica : esiste cioè un Signor Vischio con fiori maschi, che fa il polline, e una Signora Vischio, con fiori femminili che lo attende.
Ma niente contatti diretti, niente cotte o delusioni amorose, anche se poi le nozze profumano, molto romanticamente, di fiori d’arancio.
In gennaio-febbraio, i maschi del vischio imitano infatti questa fragranza a réclame di un nettare abbondantissimo, e grazie a un ingegnoso “spargi-polline” traforato, simile una saliera, infarinano a dovere moscerini e piccoli coleotteri, che raggiungeranno poi le piante femmina fecondandole.
In primavera la Signore sono già in cinta : il ventre dei loro fiori si gonfia e si notano delle piccole bacche verdi che, in ottobre-novembre, maturano, diventando bianche e traslucide. Dentro, affogato in un liquido appiccicoso, come in una capsula spaziale, nuota un embrione a forma di cuore, con le sue due foglioline verdi, i cotiledoni, piene di riserve nutritive.
Mamma vischio aspetta con impazienza i tordi, o meglio le Tordele (Turdus viscivorus), e queste, che in inverno non hanno un gran che da mangiare, non si fanno attendere.
Ripartono col ventre pieno di bacche gustose, ma lassative, e dopo una mezzoretta, mentre si liberano su un altro albero, magari a 10 Km di distanza, i bebè vengono espulsi intatti agglomerati in cordoni appiccicosi.
Una maniera forse non molto elegante di venire al mondo, ma molto pratica, perché, cadendo legati come rosari, aumentano le probabilità d’acchiappare un ramo.
Della semina si occupa anche la Capinera (Sylvia atricapilla), ma è un vero disastro, perché per lei i frutti del vischio sono troppo grossi.
Li mangia, come può, sul posto, e ripulendosi di continuo il becco, abbandona pericolosamente sui rami centinaia di bebè vischio.
Crescendo, uno accanto all’altro, ucciderebbero certamente l’albero se non intervenisse uno specialista, la Cinciarella (Cyanistes caeruleus), che li ama a tal punto …… da divorarli tutti, uno ad uno.
In primavera, quando la cinciarella ha altro cui pensare, i bebè vischio superstiti si risvegliano. Sfruttano l’energia immagazzinata nei cotiledoni per fabbricare una radice, o meglio una cannuccia, che scende verso l’ospite in una guerra serrata contro il tempo; perché se la corteccia è troppo spessa, e le scorte alimentari finiscono prima di raggiungere un vaso di linfa ascendente, la partita è persa.
A estate, i fortunati avranno messo su due foglioline e un piccolo fusto verde, che si biforca ogni anno. Così, contando le ramificazioni, si può facilmente conoscere l’età di un vischio : anche 10-20 anni per i cespi del fiorista.
E viene da chiedersi se di questo inutile scempio, a Natale, non si potrebbe anche fare a meno.
NATURA OGGI – 1989