Testo © DrSc Giuliano Russini – Biologo Zoologo
Classe: Rettili (Reptilia).
Sottoclasse: Lepidosauri (Lepidosauria).
Ordine: Squamati (Squamata).
Sottordine: Ofidi o Serpenti (Ophidia) o (Serpentes).
La classe dei Rettili (Reptilia) comprende tre sottoclassi :
►►►Arcosauri (Archosauria), con un unico ordine, i Coccodrilli (Crocodilia) con alligatori, caimani e gaviali.
►►►Lepidosauri (Lepidosauria), che costituiscono l’ordine degli Squamati (Squamata), suddiviso nei sottordini dei Sauri (Sauria) e degli Ofidi o Serpenti (Ophidia o Serpentes).
►►►Anapsidi (Anapsida), che costituiscono l’ordine dei Cheloni (Chelonia), le tartarughe.
Qui ci occuperemo solo del sottordine dei Serpentes, suddiviso in tre infraordini:
►►Cenofidi (Caenophidia).
►►Enofidi (Henophidia).
►►Scolecofidi (Scolecophidia).
A loro volta, questi tre infraordini, sono suddivisi in nove famiglie:
►Tiflopidi (Typhlopidae).
►Leptotiflopidi (Leptotyphlopidae).
►Anilidi (Aniilidae).
►Acrocordidi (Acrochordidae).
►Boidi (Boidae).
►Colubridi (Colubridae).
►Elapidi (Elapidae).
►Idrofidi o Serpenti marini (Hydrophiidae).
►Viperidi (Viperidae).
A queste nove famiglie, corrispondono ben 25 sottofamiglie, che descriveremo in linea generale nel corso del testo, e numerosi generi, specie e razze o sottospecie. Pur comprendendo tutte le famiglie e sottofamiglie, la trattazione, sarà generale, e l’approfondimento delle specie avverrà in singole schede. L’ultima parte del testo, tratterà di quegli aspetti fisiologici di organo e sistema generali e dell’ecologia-ecofisiologia tipiche degli ofidi o serpenti (ad esempio l’apparato velenifero), avendo già fatto cenno alle caratteristiche generali per la classe dei rettili parlando dei Chelonia. Infine verranno fatti alcuni cenni ad alcune patologie che affliggono i serpenti e i rettili, sia in condizioni naturali che di vita in ambiente controllato (giardino zoologico e parco acquatico), tenendo ben presente che tale materia è assai recente, e pochi veterinari se ne interessano.
Infraordine degli Scolecofidi (Scolecophidia)
Comprende l’insolita famiglia dei Tiflopidi (Typhlopidae) e quella dei Leptotiflopidi (Leptotyphlopidae).
Simili a piccoli serpenti scavatori molto specializzati, i tiflopidi sono diffusi in tutte le regioni calde della terra. La testa è corta, non distinta dal collo, il corpo cilindrico, allungato e sottile, e la coda corta.
Vengono detti dai biologi-erpetologi serpenti ciechi, per la pronunciatissima atrofia degli occhi, o anche serpenti vermi, anche se tale appellativo è assai meno giustificato.
Questi animali mostrano al tempo stesso alcuni caratteri primitivi, ed altri che indicano una specializzazione spinta. La loro posizione sistematica ha dato quindi origine a molte discussioni tra i biologi-tassonomi, e si è arrivati anche a mettere in dubbio la loro appartenenza al sottordine dei Serpenti (Serpentes).
Purtroppo i dati paleontologici a disposizione dei biologi non offrono alcuna informazione al riguardo, poiché i più antichi fossili che si conoscono, del Miocene europeo, appartengono già al genere Typhlops.
L’unica cosa certa, è che i tiflopidi occupano attualmente una posizione isolata.
I loro adattamenti ecologici alla vita di scavatori sono di vario tipo, anche se non così spinti come quelli dei membri della famiglia degli Anfisbenidi (Amphisbaenidae), infraordine Anfisbeni (Amphisbaenia), sottordine Sauri (Sauria), ordine Squamati (Squamata).
Di solito il muso è appiattito dorsoventralmente, ma in qualche specie, ad esempio nella specie africana Typhlops coniagui, la squama rostrale, sporgente e appuntita, forma un angolo verticale.
La piccola mascella inferiore, in genere priva di denti, è posta decisamente all’indietro.
Il corpo è ricoperto di squame tutte uguali, molto lisce e fortemente embricate.
La coda, cortissima, è conica, il più delle volte lunga come la larghezza della base. Termina con una squama appuntita, che sicuramente serve come punto d’appoggio durante gli scavi.
Le ghiandole epidermiche, situate alla base delle squame, sono particolarmente sviluppate, e lo stesso accade per la ghiandola cloacale, impari e mediana, che occupa la maggior parte della coda. Gli emipeni (organo pari, in numero di due), sono estremamente lunghi e sottili. Il colore uniforme, ma spesso più chiaro sul ventre, va dal giallo olivastro al nero.
I tiflopidi, non hanno l’andatura lenta e pigra degli anfisbenidi, né la loro tecnica locomotoria. Al contrario, sono animali molto vivaci, difficili da afferrare, soprattutto le specie più piccole.
Il più grande rappresentate della famiglia è il Typhlops punctatus dell’Africa tropicale, che raggiunge gli 80 cm, ma la maggior parte delle specie ha una lunghezza di 15-30 cm, e ve ne sono anche di più piccole.
La famiglia dei Tiflopidi (Typhlopidae) viene suddivisa in due sottofamiglie: quella dei Tiflopini (Typhlopinae) e quella degli Anomalepini (Anomalepinae).
La maggior parte dei tiflopini, appartenenti al genere ubiquitario Typhlops e al genere sudamericano Typhlophis, è caratterizzata dalla piccolezza di tutte le squame cefaliche.
Nell’America settentrionale i tiflopini non arrivano fino agli Stati Uniti, mentre nel Vecchio Mondo vi è una specie, il Typhlops vermicularis, che vive in Grecia, in Asia Minore e in Medio Oriente.
Anche in Sudafrica, in Giappone e in Australia vi sono Typhlops che vivono in regioni dal clima mediterraneo, mentre sembra, che non se ne trovino in Tasmania.
Comunque l’habitat caratteristico dei tiflopini è il terreno più o meno umido, facile da scavare, delle foreste tropicali ed equatoriali e dove possono trovare in abbondanza le formiche e le termiti che costituiscono il piatto forte della loro dieta.
Le specie più grandi si nutrono anche di piccoli invertebrati, costituenti la “pedofauna”, ma la loro bocca, stretta e poco dilatabile, non consente di inghiottire grosse prede.
Nelle zone dove la stagione secca è più accentuata, si rifugiano nel terreno profondo in attesa delle piogge, ma in genere vivono nello strato superficiale e si trovano spesso sotto i ceppi e i tronchi marcescenti o alla base dei termitai.
Sembra proprio che i tiflopini escano in superficie con regolarità durante la notte, soprattutto dopo la pioggia. Avanzano senza difficoltà sul terreno, pronti ad affossarsi rapidamente al minimo allarme. Come per gli anfisbenidi, s’ignora l’esatto momento di queste sortite, e se lo fanno solo per cacciare o per spostarsi da un luogo all’altro.
Si sa poco su questi serpenti. Forse alcuni tiflopini sono ovipari, probabilmente la maggior parte, sebbene alcune specie come il Grande tiflopino (Typhlops diardii) del sudest asiatico, siano vivipare.
La sottofamiglia degli Anomalepini (Anomalepinae), rappresenta un piccolo gruppo primitivo, localizzato in Sudamerica.
La testa, è ricoperta di squame più differenziate di quelle dei tiflopini, che ricordano le placche cefaliche dei Colubridi (Colubridae).
Inoltre alcuni, per esempio nel genere Anomalepis, hanno anche un dente su ciascun lato della mandibola. Tuttavia il loro aspetto generale e il comportamento, non sono sostanzialmente differenti da quelli degli altri rappresentanti della famiglia.
I membri della famiglia dei Leptotiflopidi (Leptotyphlopidae) hanno un aspetto talmente simile a quello dei Tiflopidi (Typhlopidae), in particolare al genere Typhlops, che anche per un esperto biologo erpetologo è praticamente impossibile distinguerli a occhio nudo.
Tuttalpiù si può tener presente che i leptotiflopidi, hanno tendenza a essere un po’ più sottili, con la coda un po’ meno corta, spesso più lunga che larga.
Ma è certo che le due famiglie hanno un’origine diversa, come mostra la struttura del cranio, la localizzazione dei denti sulla mandibola, e l’assenza dei denti nella mascella superiore.
Nonostante ci sia una specializzazione molto spinta per la vita ipogea, per parecchi altri caratteri i leptotiflopidi sono più affini ai serpenti recenti di quanto non lo siano i tiflopidi. Non se ne conosce alcuna forma fossile. Il genere Leptotyphlops, l’unico della famiglia, si trova nella maggior parte delle regioni tropicali del mondo, ad eccezione del sudest asiatico e dell’Oceania. Ad est non va al di là dell’India, e non lo si ritrova nemmeno nel Madagascar.
In America vi sono due specie che vivono negli USA : il Leptotyphlops dulcis, nel centro degli Stati Uniti a sud del Kansas, e il Leptotyphlops humilis in tutto il sudovest del paese, e cioè in zone più o meno secche, dall’inverno rigido.
Invece nel Vecchio Mondo, i leptotiflopidi non si spingono più a nord del Sahara settentrionale, come accade ad esempio col Leptotyphlops macrorhyncus.
Tale distribuzione geografica, è opposta a quella dei tiflopidi, che mancano negli Stati Uniti, ma come visto, si trovano in Grecia e nell’Asia Minore.
Gli areali delle due famiglie, si sovrappongono largamente nelle regioni intertropicali americane e africane, dove vivono la maggior parte delle specie.
Per quel poco che conosciamo, le abitudini e i costumi dei leptotiflopidi, sono identiche a quelle dei tiflopidi.
Pare comunque che, le due specie americane, escano verso il crepuscolo e che lo facciano con regolarità.
I più grandi leptotiflopidi non superano i 30 cm di lunghezza. la maggior parte misura 12-20 cm, mentre alcuni raggiungono a stento gli 8-10 cm, con un corpo che ha lo spessore della mina di una matita.
Il colore, uniforme, è il più delle volte marrone o sabbia, talora rosato. In certe specie, come Leptotyphlops macrorhyincus, la squama rostrale è molto prominente, ma il muso non forma mai una vera e propria “cresta sagittale”.
Per quello che se ne sa, i leptodiflopidi sono ovipari.
Infraordine degli Enofidi (Henophidia)
Comprende le tre sopra citate famiglie degli Anilidi (Aniliidae), degli Acrocordidi (Acrochordidae) e dei Boidi (Boidae).
La famiglia degli Anilidi (Aniilidae) è suddivisa a sua volta in 3 sottofamiglie, molto diverse fra loro, di serpenti scavatori primitivi più o meno affini ai boidi.
Un certo numero di reperti fossili del Cretaceo superiore e dell’Eocene, in particolare alcune vertebre isolate, sono stati catalogati come appartenenti ad anilidi.
Un serpente meglio conservato del Cretaceo superiore argentino, lungo fino a 2 m e appartenente al genere Dinilysia, presenta caratteri intermedi tra la sottofamiglia degli Anilini (Aniliinae) e i boidi.
Gli anilini sono serpenti di taglia media, con la testa conica non distinta dal collo, il corpo cilindrico, molto spesso un po’ appiattito dorsoventralmente nella parte posteriore, ed una coda corta e conica.
Gli occhi sono piccoli ma funzionali. Le squame del corpo, larghe e lisce, sono tutte uguali, se si eccettuano alcune specie, che presentano una fila ventrale con placche leggermente più ingrandite. Sono presenti vestigia di cinto pelvico e, su ciascun lato della cloaca, sporge una specie di piccolo uncino, come nei boidi.
Questa sottofamiglia, vive in due regioni geografiche ben distinte: il Sudamerica tropicale, con il genere Anilius, e il sudest asiatico e l’Indonesia con i generi Cylindrophis e Anomalochilus. L’Anilius scytale, che raggiunge i 90 cm di lunghezza, viene detto “falso serpente corallo” a causa della sua colorazione vivace, ad anelli alternativamente rossi e neri.
I Cylindrophis, sono un po’ più piccoli (50-70 cm), marroni o neri, chiazzati sui due lati del corpo, con anelli bianchi asimmetrici. Quando questi animali sono irritati, hanno l’abitudine di sollevare la loro larga coda conica, mostrando la parte inferiore rossa o arancione, come nel caso del Cylindrophis rufus.
Tutti questi serpenti sono ottimi scavatori, meno specializzati però di quanto non lo siano i tiflopidi, e si trovano soltanto nei terreni soffici delle foreste tropicali, in genere sotto pezzi di tronchi e detriti vegetali.
Vanno spesso a caccia anche all’esterno durante la notte, avanzando lentamente sul terreno alla ricerca delle loro prede. Si tratta quasi esclusivamente di altri rettili, soprattutto piccoli serpenti e in qualche caso piccoli sauri scavatori. Per questo i biologi zoologi li definiscono come ofiofagi e saurofagi.
Sembrerebbe che tutti siano vivipari.
La sottofamiglia degli Uropeltini (Uropeltinae), costituisce un gruppo allo stesso tempo molto omogeneo e molto diversificato.
Si trovano soltanto nel sud della penisola indiana e a Ceylon, ma in quest’area, relativamente ridotta, si contano non meno di 7 generi e più di 40 specie. Sono serpenti piccoli o piccolissimi.
I più grandi, come l’Uropeltis ocellatus e il Rhinophis oxyrhinchus, toccano i 54 e i 58 cm, ma la maggior parte è al disotto dei 30 cm di lunghezza e ve ne sono alcuni che misurano solo 10-12 cm.
Hanno testa conica, non distinta anatomicamente dal collo ispessito, il muso appuntito, il corpo cilindrico e la coda corta. Non possiedono più alcun residuo di “cinto pelvico” e le squame ventrali, sebbene ancora strette, sono già differenziate. L’occhio è piccolissimo, di solito coperto da una grande placca cefalica. Il carattere morfologico più peculiare di questo gruppo è però rappresentato dalla coda. In quest’organo si possono infatti osservare tutte le tappe di una specializzazione, che non ha riscontro in nessun altro serpente.
In alcune specie questa è ancora di forma normale, conica, e solo la squama terminale è un po’ più appiattita ventralmente. Ma a seconda dei generi, questa squama può ingrandirsi e ornarsi di spine e di creste, o partecipare alla formazione di un vero e proprio scudo caudale, provvisto di un supporto osseo.
Lo stadio estremo ci è offerto dal genere Rhinophis, caratterizzato da una coda cilindrica che termina bruscamente con uno scudo ovale inclinato.
In questo caso, è evidente la funzione dell’organo, che serve a chiudere le gallerie scavate dal serpente.
Ma biologi erpetologi si domandano se questa è effettivamente l’unica funzione, e quale sia il significato delle squame spinose sulla coda. Ogni risposta, allo stato attuale delle conoscenze, può essere solo una congettura.
Nei Platyplectrurus, che sono i meno specializzati degli uropeltini, la squama rostrale è arrotondata, le placche cefaliche sono un po’ più numerose, l’occhio, anche se piccolo, si trova a un livello normale, e la coda termina con una semplice spina.
Il comportamento e i costumi degli uropeltini, sono poco conosciuti, come del resto quello della maggior parte dei rettili scavatori.
Sembra che vengano in superficie piuttosto di rado, e che si trovano in vari biotopi, anche se la maggior parte vive nelle foreste umide delle montagne del sudovest dell’India e di Ceylon, e molte specie, arrivano fino sopra i 2000 m di altitudine.
La loro dieta è basata principalmente, se non esclusivamente, sui lombrichi e piccole larve d’insetti.
Sembra che tutti siano vivipari.
La terza sottofamiglia in cui è suddivisa la famiglia degli anilidi, è quella dei Xenopeltini (Xenopeltinae), rappresentata da un’unica specie, lo Xenopeltis unicolor del sudest asiatico e dell’Indonesia.
Questo strano serpente lungo circa un metro, con denti numerosi e serrati che costituiscono una caratteristica di primitività, è decisamente meno specializzato degli altri anilidi, e si avvicina, per molti caratteri, ai colubri classici. La testa, piatta e ricoperta di squame allargate, è appena differenziata dal collo. Il corpo non è regolarmente cilindrico su tutta la sua lunghezza, e la coda è circa un decimo della lunghezza totale.
Le squame, sono larghe ed estremamente lisce. Le placche ventrali ben differenziate ed estese, quasi come nei colubridi. Non vi è nessun residuo di cinto pelvico. I riflessi iridescenti della pelle di questo animale, bruno-violaceo sul dorso e chiaro sul ventre, gli hanno valso il nome di serpente “arcobaleno”.
Gli Xenopeltis escono regolarmente durante la notte, si muovono facilmente sul terreno, e se si tenta di catturarli, danno prova di una certa agilità, senza cercare immediatamente d’infossarsi.
In realtà questa specie ha abitudini semiscavatrici, e caccia altrettanto bene sulla superficie che nello strato superficiale del sottobosco.
Si nutre soprattutto d’anfibi, e occasionalmente di qualsiasi piccolo vertebrato che si lasci catturare facilmente, serpenti compresi.
I membri della famiglia degli Acrocordidi (Acrochordidae) si sono specializzati per la vita acquatica, e ancora più degli xenopeltini si avvicinano per molti caratteri ai colubridi. Tant’è che sono stati classificati tra questi per lungo tempo, e il dibattito al riguardo tra i biologi non è ancora chiuso.
Senza dubbio sono i meno eleganti di tutti i serpenti, con una testa larga e piatta, non distinta dal collo, un corpo pesante la cui pelle, troppo abbondante, sembra pieghettata, ed una coda relativamente corta. Il tegumento è costituito, anche sulla testa, da piccolissime squame sovrapposte, tutte uguali, ed è quindi molto apprezzato per la pelletteria. L’adattamento alla vita acquatica, si esprime nelle narici dotate di valvole, che si trovano sulla parte superiore del muso, negli occhi piccoli, anch’essi posti in alto, e nell’assenza di placche ventrali. Ma la coda non è appiattita lateralmente.
Gli acrocordidi, sono praticamente incapaci di muoversi sul terreno, ed essendo vivipari, partoriscono in acqua.
Se ne conoscono solamente due specie.
La più grande, l’Acrochordus javanicus, diffuso in tutto il sudest asiatico fino al nord dell’Australia, può toccare i 2,50 m di lunghezza.
Questo grosso serpente vive esclusivamente nei fiumi, negli stagni e soprattutto, nelle profonde paludi ricche di vegetazione. Sopporta bene anche le acque salmastre, ma è totalmente assente dalle coste nude.
La seconda specie, più piccola, il Chersydrus granulatus, ha un’area di ripartizione più estesa, dato che si trova dalla costa sudovest dell’India fino alle Isole Salomone, quindi al disotto della linea di Wallace e ad est della Papua Nuova Guinea, cioè, ecogeograficamente parlando, nella porzione Oceanica dell’ecozona Australasica.
Si distingue dal precedente per il corpo un po’ meno massiccio, una carena longitudinale sul ventre, e la presenza di squame allargate sul dorso.
Si conosce ben poco sui suoi costumi di vita, ma sembra che si trovi solo sulle rive del mare o nelle acque salmastre e calme, spesso poco profonde. Sono stati visti infatti muoversi lentamente nel fango, durante la bassa marea, spostandosi da una pozzanghera all’altra. Di preferenza si nutrono infatti di pesci.
La famiglia dei Boidi (Boidae) è quella maggiormente nota al pubblico non professionista. Un gruppo relativamente omogeneo, con serpenti che hanno mantenuto alcuni caratteri primitivi, in particolare alcune vestigia del cinto pelvico.
Oltre ad un gran numero di specie di grande e grandissima taglia, che si trovano nella zona intertropicale, contano anche qualche piccola forma “ipogea” (che vive nel sottosuolo), soprattutto nelle regioni aride di tipo mediterraneo.
Nessun altro gruppo di serpenti è altrettanto ben rappresentato dai fossili, che evidenziano, a partire dal Cretaceo, specie vissute in Europa ed America. Alcune erano gigantesche (Gigantophis, Madtsoia), altre a taglia media, e in vari casi sono presenti alcuni caratteri tipici dei serpenti scavatori che troveremo poi negli Ericini (Erycinae).
Salvo quest’ultimi, i fossili di boidi scompaiono improvvisamente a partire dal Pliocene, in un misterioso contrasto con la precedente abbondanza di forme.
I boidi vengono classificati in quattro sottofamiglie, ben definite in base ai dati osteologici della testa, che però non sempre corrispondono all’aspetto esterno: i Pitonini (Pythoninae), i Boini (Boinae), i Bolierini (Bolyerinae) e gli Ericini (Erycinae).
I Pitonini (Pythoninae) abitano esclusivamente le zone calde del Vecchio Mondo, dall’Africa alle Filippine, fino all’Australia.
Sono per lo più grossi o grossissimi serpenti, col corpo pesante e la coda piuttosto corta. La testa, ben distinta dal collo, mostra un caratteristico muso allungato, che richiama un po’ quello di un cane.
Le specie più grandi sono prevalentemente terrestri e vivono nelle savane cespugliose, nelle savane edafiche, e nelle foreste, molto spesso lungo i fiumi, dove nuotano benissimo.
Trascorrono la giornata nei tronchi cavi o in tane costruite da altri animali, ed escono la notte per andare a caccia. Le specie più piccole, sono spesso più o meno arboricole, o specie da ramo, e sono tutte ovipare.
Il genere Python è il più diffuso. In Africa si contano 3 specie, tutte a sud del Sahara. Il Pitone di Seba (Python sebae) è il più diffuso, e raggiunge i 7 m di lunghezza !
Lo si trova in diversi ambienti, dalla zona del Sahél, fino alla foresta del Senegal e al Capo, spesso lungo le rive dei fiumi, ma mai in zone prive di vegetazione, entro la quale si mimetizza più per tendere agguati che per difendersi da eventuali predatori (al massimo coccodrilli e leoni) e animali come elefanti, rinoceronti e bufali che potrebbero calpestarli.
Appena ne ha l’occasione, si arrampica facilmente e volentieri sugli alberi, e pur non essendo aggressivo, quando viene disturbato e messo in condizioni di non poter fuggire, si difende vigorosamente. Nessuno può tener testa ai grossi esemplari, ma anche gli individui di 2 o 3 m possono mordere a fondo, provocando serie ferite.
Il Pitone reale (Python regius), localizzato in Africa occidentale e soprattutto nella regione sudanese, è molto più piccolo, ma un po’ più massiccio. Probabilmente in natura non supera i 2 m, e in genere gli esemplari catturati misuravano 1-1,50 m.
Quando viene disturbato, reagisce in una maniera caratteristica, arrotolando il corpo in strette spire, con la testa all’interno.
Data la sua forza notevole, è difficile srotolarlo, e in realtà, non converrebbe neanche farlo per la sua pericolosità in queste condizioni emotive, ma lo si può comodamente trasportare in questa posizione.
È anch’esso strettamente terragnolo, pur essendo un buon nuotatore come il suo parente più grosso.
La terza specie, il Python anchietae, si trova nell’Angola e nelle regioni circostanti, ma è meno ben conosciuto dai biologi zoologi.
In Asia occidentale non si trovano pitoni, che ricompaiono soltanto in India col Python molurus.
Questo grande serpente, che eccezionalmente supera i 6 m di lunghezza, è di casa in tutto il sudest asiatico e in Indonesia, ed è molto facile vederlo nei giardini zoologici e nei parchi acquatici.
Il Pitone reticolato (Python reticulatus ), più orientale della specie precedente (manca nelle Indie, ma si estende fino alle Filippine), è con molta probabilità il più grande serpente oggi esistente sulla terra. Sembra che alcuni biologi abbiano catturato esemplari di 9-10 m, e in alcuni casi anche di 12 m !
Ovviamente si tratta di eccezioni biologiche, perché già un incontro con un esemplare di 5-6 m è un fatto eccezionale e comunque impressionante.
Come tutti i pitoni, è un animale prevalentemente terrestre che si nutre di mammiferi di mole considerevole: piccole antilopi, cinghiali e canidi di varie specie, senza tuttavia disdegnare prede più piccole come uccelli e roditori.
Ma ovviamente, se infastidita o minacciata, una Tigre (Panthera tigris) potrebbe facilmente ucciderebbe questo possente animale.
Le capacità di deglutizione dei serpenti di grande mole sono state esagerate dalle fantasie popolari e da molti romanzi d’avventura. È zoologicamente impossibile, che un esemplare di questi magnifici serpenti possa inghiottire un uomo adulto o un ungulato di peso equivalente. Secondo alcuni zoologi sembra che sappiano stimare con una certa precisione il volume di una ipotetica preda, e tendono quindi ad evitare, anche se facili, quelle di dimensioni troppo grandi, come per esempio un uomo adulto.
Questo perché durante la digestione perdono le loro capacità di movimento e di difesa, rimanendo inerti. Una preda troppo grande da digerire, significherebbe quindi una maggior tempo di vulnerabilità ad eventuali predatori.
Per contro figurano occasionalmente nel loro menu degli animali ben più temibili ai nostro occhi, come una pantera di 30 kg; ma una tigre la eviteranno di sicuro, come le specie africane evitano un leone adulto.
Nonostante sia così grande, un pitone reticolato si avvicina frequentemente e volentieri alle abitazioni e perfino alle periferie delle città, attirato probabilmente dall’abbondanza dei ratti, che vivono tra i rifiuti e forse, anche dalla presenza di cani di piccola taglia e dagli animali da cortile, come oche, galline, capre, ecc. che nei paesi asiatici vengono allevati anche in città.
Ancora più ad est troviamo altre due specie di pitoni: il Python curtus ed il Python timorensis, nella sola Indonesia, che raggiungo rispettivamente i 2,75 m ed i 3,50 m.
Il primo, caratterizzato da un corpo particolarmente tozzo e dalla coda corta, pur non essendo semiacquatico in senso stretto, sembra avere un habitat particolarmente associato ai corsi d’acqua. In Indonesia e soprattutto in Australia, si trovano parecchi generi di pitoni, che sono caratteristici ed endemici di queste zone.
Quelli del genere Morelia, molto affini ai pitoni classici, ma meno massicci e lunghi al massimo 4 m, vivono nelle foreste umide. Sono semiarboricoli e dotati di coda prensile.
Gli altri 2 generi, Liasis, abbastanza diffuso dalle Filippine meridionali e da Timor fino all’Australia, e Aspidites, limitato all’Australia, differiscono dagli altri pitoni per la presenza di grandi placche cefaliche. Anche il loro colore è più uniforme, generalmente bruno sul dorso.
I Liasis sono terrestri, ma occupano diversi biotopi, sia nelle foreste sia nelle savane o nelle zone rocciose. Il più grande, il Liasis amethistimus, può diventare gigantesco: sicuramente più di 6 m, e si dice che nell’Australia settentrionale sia stato ucciso un esemplare di 8 m di lunghezza !
La maggior parte tuttavia non supera i 2-3 m.
La loro dieta è a base soprattutto di mammiferi terrestri di piccola e media taglia, e su qualche sauro.
L’Aspidites melanocephalus, un serpente piuttosto slanciato con la testa nera e con bande trasversali scure sul corpo, vive nel nord dell’Australia e presenta la particolarità di essere essenzialmente “ofiofago”, che si nutre di serpenti. Caso molto raro tra i boidi, si nutre infatti indifferentemente sia di specie velenose che inoffensive.
L’Aspidites ramsayi, il cui habitat è nelle zone aride dell’Australia centrale, ha una dieta più classica, anche se con un notevole apporto di sauri. Sia l’uno che l’altro arrivano al massimo intorno ai 2,50-2,70 m di lunghezza, ma la maggior parte degli esemplari è molto più piccola.
In Nuova Guinea e nella penisola di York, vive lo strano e bellissimo Chondropython viridis, l’unico pitonino nettamente arboricolo.
Si tratta di un serpente di taglia media (da 1 m a 1,80 m) che assomiglia in maniera stupefacente a un boa ugualmente arboricolo del Sudamerica, il Boa canina da alcuni biologi zoologi chiamato Corallus canina.
Anche in questo serpente si trova una coda prensile e il colore del corpo è verde chiaro, con una banda irregolare lungo la colonna vertebrale, un po’ sporgente. Si nutre soprattutto d’anfibi.
Vi è un altro pitonino, il Calabaria reinhardti, che si è adattato in maniera molto netta, ad un tipo di vita particolare del tutto differente: evento rarissimo nei Boidae, si è trasformato in uno scavatore.
È un piccolo serpente lungo 60-90 cm, con la testa corta, conica e poco distinta dal collo, la coda spessa e molto corta e con corpo cilindrico, rivestito da squame lisce, di cui alcune ventrali strette. Quanto di più diverso si possa immaginare da un pitone.
Durante la notte circola spesso al suolo, ma quando è disturbato cerca d’affondare nel terreno soffice, e trascorre gran parte della giornata sotto lo strato dei detriti vegetali.
Quando si cerca di catturarlo, o lo si disturba in altro modo, si arrotola velocemente in una palla compatta, alla stregua del Pitone reale (Python regius). Quest’unica specie, si trova in tutte le foreste umide dell’Africa occidentale e centrale. La dieta è a base di roditori, e senza dubbio anche di sauri.
La sottofamiglia dei Boini (Boinae) occupa nel Nuovo Mondo e nel Madagascar pressapoco il posto che hanno i pitonini nel Vecchio Mondo. Sono però tutti “vivipari” e ben pochi raggiungono la taglia dei pitoni.
Il genere Boa (da alcuni biologi zoologi, è stato suggerito durante gli anni ’80 del secolo XX di sostituirlo con Corallus, il dibattito a riguardo ad opera dell’International Commission of Zoological Nomenclature “ICZN” non è stato ancora oggi concluso) comprende numerose specie dell’America tropicale, di cui soltanto un piccolo numero arriva fino le Antille.
Si tratta di serpenti semiarboricoli che abitano spesso nelle vicinanze dei corsi d’acqua, senza dubbio per una maggior ricchezza di prede, dato che pur essendo ottimi nuotatori, non sono certo di costumi acquatici. Contrariamente a quanto molti credono, questi animali non sono poi così grandi. La maggior parte non supera i 2 m di lunghezza, e predano soprattutto piccoli roditori, opossum arboricoli, uccelli e sauri.
Sono di svariati colori, con disegni spesso a trama complessa: ad esempio il Boa annulata è marrone, con degli anelli più o meno accentuati in una tonalità più scura, il Boa cooki, è pressoché uniformemente color sabbia e il Boa canina è verde con delle macchie bianche sul dorso.
Quest’ultima specie, più decisamente arboricola delle altre, scende raramente a terra, nutrendosi sopratttutto d’uccelli, anche di grandi Psittaciformes, e occasionalmente di piccole scimmie.
Abbiamo già accennato allo stupefacente fenomeno di “convergenza evolutiva” che essa presenta con il pitonino Chondropython viridis della Nuova Guinea; tuttavia il diverso regime alimentare è indice del fatto che queste due specie non occupano la medesima nicchia ecologica.
Sebbene siano poco pericolosi, i veri boa sono di solito animali abbastanza irascibili, piuttosto difficili da catturare, e spesso rimangono aggressivi anche in cattività.
Hanno denti particolarmente lunghi (questo è un carattere morfologico che si ritrova anche in altre specie e generi di serpenti arboricoli, soprattutto fra gli ornitofagi, quelli cioè che si nutrono d’uccelli) che possono provocare ferite profonde e dolorose.
Il Boa costrittore (Boa constrictor) e il più conosciuto del gruppo.
Diffuso dal nord dell’Argentina al Messico, di solito viene classificato in un genere affine Constrictor, cioè come Constrictor constrictor. È l’unico rappresentante della famiglia che arriva sino alle zone temperate al limite nord della sua area di ripartizione, passando in letargo la breve stagione fredda. In contrasto con la loro fama, i più grandi esemplari non superano i 4 m di lunghezza, e la maggior parte degli adulti è compresa tra i 2-2,50 m.
Il loro comportamento è molto simile a quello dei veri boa, ma sembrano meno irascibili e sopportano meglio la cattività. Li si ritrova infatti spesso nei terrari-vivai dei giardini zoologici e parchi acquatici.
I boini del genere Epicrates, formano un gruppo importante, zoologicamente parlando, ampiamente diffuso sia sul continente che alle Antille, dove in parecchie isole, si trovano specie e razze o sottospecie particolari.
Quella di Cuba, l’Epicrates anguilifer, raggiunge una mole maggiore di quella del boa costrittore, mentre le altre sono nettamente più piccole.
L’Epicrates cenchria dell’America centrale e meridionale, viene spesso chiamato dai biologi zoologi boa arcobaleno, a causa dei riflessi iridescenti delle squame.
L’unico boa, la cui mole può rivaleggiare con quella dei grandi pitoni, compreso il Python reticulatus, è l’Anaconda (Eunectes murinus), che vive nella parte settentrionale del Sudamerica, nella foresta Amazzonica.
È una specie ovovivipara. Per lungo tempo, fino gli anni ’80 del secolo XX, i biologi zoologi pensavano fosse vivipara come gli altri Boinae, ma successivi studi mediante riprese cinematografiche concomitanti a quelli di dissezione praticata su animali (femmine gravide trovate morte), hanno dimostrato l’esistenza di uno sviluppo di uova cleidoiche all’interno degli ovidotti.
Durante la gestazione queste schiudono in precisi momenti, rilasciando piccoli già formati, mentre i frammenti bianchi dei gusci, a consistenza morbida, vengo riassorbiti dalla madre, per recuperare parte delle risorse minerali perse. Dalla regione vaginale esce una prole atta-presociale, già in grado di strisciare, che compie subito una prima muta, da lì a poche ore, e raggiunge in un tempo relativamente breve, secondo curve di crescita precise, le dimensioni allometriche della specie, necessarie cioè per raggiungere la maturità sessuale.
Con certezza sono stati catturati esemplari che superano i 7 m di lunghezza, ed è possibile che qualche grande maschio, possa raggiungere i 9 m, o forse eccezionalmente i 10 m! Invece, i numerosi racconti di contadini, viaggiatori, pescatori di quei luoghi, che narrano di esemplari lunghi fino a 22 m, rimangono, ad oggi, relegati nelle leggende, probabilmente frutto dell’immaginazione, se non addirittura di menzogne deliberate.
Una curiosità a tale proposito: durante la seconda metà degli anni ’50 del secolo XX, i biologi del Museo di Storia Naturale e della Società Zoologica di New York, avevano messo a disposizione un premio di 5000 $, per chi avesse recuperato un esemplare di 12-13 m di Eunectes murinus, per averlo a disposizione e poterne studiare la biologia; ad oggi nel 2011, tale premio non è stato ancora reclamato da nessuno !
Questi grandi serpenti conducono una vita semiacquatica e semiarboricola lungo i corsi d’acqua dei bacini del Rio delle Amazzoni e dell’Orinoco.
Come molti dei grandi sauri che vivono nella medesima area geografica, se ne stanno spesso sui rami, che sporgono sull’acqua, anche a livello delle associazioni a Mangrovie, e vi si buttano al primo segno di pericolo.
Sembra che il regime alimentare che li caratterizza, sia diverso a seconda delle regioni.
Alcune popolazioni sono principalmente piscivore, ed altre si nutrono per lo più di mammiferi, uccelli e rettili.
Nello stomaco di un’anaconda di 7,50 m di lunghezza, è stato trovato un caimano di 2 m !
Nel bacino del Paraguay, si trova una specie molto più piccola, ma che ha abitudini di vita simili.
Gli unici boidi del Vecchio Mondo, sono rappresentati da due generi semiarboricoli del Madagascar : Acrantophis e Sanzinia.
A parte la strana distribuzione geografica, che ricorda quella degli iguanidi, questi animali non presentano caratteristiche di rilievo e sono molto simili ai boa del Nuovo Mondo. Talvolta vengono addirittura classificati negli stessi generi, Constrictor per Acrantophis e Boa per Sanzinia.
Tre generi di boa dell’America tropicale, Tropidophis, Trachyboa e Ungaliophis, costituiscono un gruppo omogeneo e un po’ diverso, dagli altri che formano la sottofamiglia dei Boini (Boinae).
Sono serpenti molto piccoli, in massima parte dell’ordine di 1 m, di solito semiarboricoli. Di molte forme si conosce ben poco.
I 3 generi sono rappresentati sul continente, e vi sono inoltre molte specie e sottospecie di Tropidophis nelle Antille.
La sottofamiglia dei Bolierini (Bolyerinae), presenta due specie rare nelle isole Mascarene (arcipelago di isole dell’oceano Indiano a largo del Madagascar), Bolyeria multicarinata e Casarea dussumieri, ormai sterminate sull’isola Mauritius, e che si trovano soltanto enormemente rarefatte, sulla vicina isola Rotonda.
Si differenziano dai boini per alcune particolarità osteologiche della mascella e delle vertebre, e per la mancanza del cinto pelvico.
Si tratta di animali di taglia media, da 1 a 1,50 m di lunghezza, semiarboricoli e dall’aspetto simile a quello degli altri piccoli boa.
È probabile, che la loro rarefazione dipenda dalla scomparsa del loro biotopo naturale, distrutto soprattutto dalle capre introdotte dall’uomo, piuttosto che da una eliminazione diretta. Queste due specie, di notevole interesse zoologico per i biologi, tra qualche anno (per il declino massivo cominciato durante gli anni ’70 del secolo scorso) saranno probabilmente scomparse, prima che si sia riusciti a studiarle seriamente.
La sottofamiglia degli Ericini (Erycinae) riunisce un certo numero di piccoli boa, spesso semiscavatori, che probabilmente non sono neanche tutti parenti.
Contrariamente ai Calabaria ed alla maggior parte dei serpenti che vivono più o meno infossati nel terreno, non si trovano nelle foreste tropicali, ma nelle zone subaride dell’emisfero boreale (nord).
Sebbene, siano perfettamente in grado di scavare nel terreno soffice, molti sono d’altronde dei sabulicoli (in ecologia si dice di organismo sia vegetale, che animale che vive su terreno sabbioso, o immediatamente al disotto). Nella maggior parte dei casi, se ne stanno nelle tane dei roditori. Durante la notte escono molto frequentemente e si nutrono di micromammiferi e di sauri.
Come i Calabaria, sono facilmente distinguibili per la testa conica, non distinta dal collo, il corpo cilindrico e la coda corta.
Il genere Eryx è diffuso dalle zone del Sahél africano e del Sudan (Eryx colubrinus, Eryx muelleri) all’India (Eryx conicus, Eryx johnii) e dal Nordafrica all’Asia centrale, compreso il sudest europeo (Eryx jaculus).
Tutti gli Eryx sono ovipari ed hanno una lunghezza che oscilla tra i 40 e gli 80 cm.
Nel Nuovo Mondo, invece, gli ericini sono molto ben rappresentati.
La Charina bottae si trova nell’ovest nordamericano, dalla Columbia britannica alla California. Non è quindi un animale tipico delle regioni secche, come sono generalmente gli Eryx, pur avendone lo stesso aspetto e le medesime abitudini.
La seconda specie del Nuovo Mondo, il Lichanura roseafusca è sotto certi aspetti, una forma intermedia tra gli ericini e i boini. Se non fosse per il suo habitat (le regioni aride, ma non desertiche del sudovest degli Stati Uniti e del nordovest del Messico) si potrebbe facilmente classificarla con i veri boa.
Questo serpente, lungo da 60 a 90 cm, non possiede né la testa conica, né la coda estremamente corta degli scavatori, benché questi caratteri siano leggermente abbozzati.
Essenzialmente notturno, circola lentamente sulla superficie del suolo, evitando le zone scoperte e nonostante trascorra buona parte del suo tempo in tane o in tronchi cavi, non mostra nessuna tendenza a mettersi a scavare di proprio. Infine è viviparo.
Esiste poi un ultimo gruppo, molto isolato, che talvolta viene classificato tra i boini e, talaltra tra gli ericini, che è costituito da piccoli boa terrestri del genere Candoia (da alcuni biologi zoologi indicato come Enygrus) del nordovest dell’Oceania.
Questi serpenti, dal corpo pesante, dalla testa larga e triangolare, ben differenziata dal collo, assomigliano un po’ alle vipere e sono di carattere irascibile.
Come certi Trimeresurus (da altri autori indicati come Bothrops), menano colpi con una tale energia, che talvolta possono sollevarsi da terra con tutto il corpo. Ma perlomeno alcuni tra loro hanno una tecnica di difesa più pacifica, arrotolandosi in una palla compatta con la testa più o meno affondata al centro.
Si conosce poco del loro comportamento, dei loro costumi e della loro ecologia alimentare, ma possediamo alcuni studi della seconda metà degli anni ’70 del secolo XX, sulla loro locomozione. Quando si spostano sulla sabbia, si servono, anche più lentamente e con più incertezza, di un’andatura che richiama la progressione laterale dei serpenti del genere Cerastes.
Infraordine dei Cenofidi (Caenophidia)
Questo infraordine comprende la famiglia dei Colubridi (Colubridae), suddivisa in ben 10 sottofamiglie, quella degli Elapidi (Elapidae), senza sottofamiglie, la famiglia degli Idrofidi o serpenti di mare (Hydrophiidae), suddivisa in 2 sottofamiglie, e la famiglia dei Viperidi (Viperidae), suddivisa in 2 sottofamiglie.
La famiglia dei colubridi comprende da sola i due terzi dei serpenti attuali, e da sempre questo grande gruppo è la disperazione dei biologi sistematici.
Infatti, nonostante non manchi qualche piccolo gruppo specializzato facile da classificare in sottofamiglie distinte, è difficilissimo stabilire delle suddivisioni razionali tra la maggior parte delle specie.
Purtroppo in questo caso, anche la paleontologia non ha aiutato e non aiuta i biologi zoologi erpetologi.
I colubridi fossili sono decisamente rari nei giacimenti dell’inizio del Terziario europeo e nordamericano, e quando si fanno relativamente abbondanti, nel Pliocene e nel Pleistocene, si tratta per la maggior parte dei casi dei generi attuali.
È molto probabile che il gruppo si sia sviluppato e differenziato nelle zone intertropicali, ancora poco conosciute, molto prima della sua relativa diffusione nelle zone temperate.
La classificazione qui adottata per i Colubridae e più in generale per i Caenophidia, segue un criterio molto pratico, per rendere più agevole la descrizione di questo difficile e importantissimo gruppo.
Perciò, pur non arrivando a separare i colubridi in numerose famiglie distinte, come fece durante la seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso il biologo erpetologo britannico dell’Università di Cambridge Prof G. Underwood, accetteremo a livello di sottofamiglie, parecchie delle suddivisioni che questo autore ha proposto, poiché sono generalmente accettate dalla International Commission of Zoological Nomenclature (ICZN).
Ricordiamo comunque anche la vecchia classificazione proposta dal grande biologo paleontologo Alfred Sherwood Romer dell’Harvard University, che classificava i serpenti in funzione dell’anatomia comparata dell’apparato velenifero e della presenza o meno di denti specializzati alla conduzione del veleno (che li suddivide già in innocui e velenosi), come anche della posizione che essi hanno nei mascellari.
In base a questa, se non ci sono denti specializzati e tutti hanno le medesime dimensioni, i serpenti vengono definiti “aglifi” e sono generalmente non velenosi; se invece esistono denti di conduzione del veleno, associati alla ghiandola velenifera e sono posizionati posteriormente nei mascellari si definiscono “opistoglifi”, solitamente poco velenosi, comunque non mortali per l’uomo, tranne rari casi come il Bloomslang; e se invece sono posti anteriormente, nei mascellari, vengono definiti “proteroglifi” molto velenosi, come i cobra, pericolosi per l’uomo; in ultimo, se sono cavi come l’ago ipodermico di una siringa, vengono definiti “solenoglifi”, come i crotali e i viperidi, tra i più velenosi e mortali per l’essere umano.
Questo sistema tassonomico, che portò il biologo americano a suddividere i colubridi in aglifi e opistoglifi, non ha oggi però più alcun valore tassonomico, dato che grandi zanne scanalate sono comparse indipendentemente nelle diverse linee evolutive.
Diciamo però, che nel corso del testo, farò cenno a questa classificazione, solo per far capire al lettore, se la specie di cui stiamo parlando è o meno velenosa e se sì, dove sono disposti i suoi denti di conduzione del veleno. Dal punto di vista funzionale e pratico, questo schema rimane comunque molto utile, anche se lo è meno per lo studio della Storia Naturale della specie.
Lo stesso si può dire per la presenza di una ghiandola labiale specializzata, dal secreto tossico, detta “parotide” (nulla a che fare con le parotidi dei mammiferi), chiamata anche ghiandola del Duvernoy, dal nome del biologo zoologo, anatomo-comparato che nel 1832 la individuò, che effettivamente si ritrova in tutti gli opistoglifi, ma che è comunque presente anche in un certo numero di aglifi, appartenenti ai più svariati gruppi.
La sottofamiglia dei Colubrini (Colubrinae), anche nel senso stretto che forniamo in questa introduzione, contiene comunque circa la metà dei Colubridae di tutto il mondo, e nei suoi rappresentanti si osservano parecchi adattamenti particolari ecoevolutivi.
Passeremo velocemente in rassegna proprio questi ultimi aspetti, ammettendo però che in alcuni casi ci troveremo più di fronte a fenomeni di “convergenza evolutiva”, piuttosto che a vere e proprie parentele filogenetiche.
Il tipo più classico, quello dei “colubri” presente sui testi scolastici di Biologia, corrisponde ai serpenti terrestri di taglia media (di solito 1-2 m di lunghezza), con il corpo affusolato ma robusto, e con la testa spesso portata in alto (sollevata da terra), ben distinta dal collo. È il caso dei numerosi rappresentanti dei generi Coluber e Elaphe, diffusi praticamente ovunque (mancano solamente in Africa tropicale e in Oceania).
In America settentrionale, i primi vengono chiamati serpenti frusta o serpenti corridori, mentre i secondi serpenti dei ratti.
In Italia, le specie più note dei due generi citati sono il Biacco (Coluber viridiflavus) ed il Colubro di Esculapio (Elaphe longissima). Dai costumi d’accoppiamento di questa specie, venne tratto il simbolo dei medici, o di Esculapio, consistente in due serpenti avvolti alla coda.
Nelle regioni temperate sono tutti diurni, e vanno attivamente a caccia di roditori, che rappresentano le loro prede preferite, cui si aggiungono gli uccelli che nidificano sul terreno o sui cespugli bassi, le lucertole, e talvolta altri serpenti, mentre gli anfibi non vengono quasi mai presi in considerazione. Nonostante siano ottimi nuotatori, il loro habitat preferenziale è rappresentato dai boschetti e dalle zone semicoperte.
Pur essendo particolarmente aggressivi, questi serpenti si difendono vigorosamente solo in caso di attacco, e allora mordono senza alcuna esitazione.
Nelle regioni calde, qualche esemplare di questi colubri può raggiungere dimensioni notevoli.
Ad esempio i membri del genere Ptyas, dell’Asia meridionale e quelli del genere Drymarchon, dell’America tropicale e subtropicale, superano spesso i 2 m di lunghezza.
Ma il record sembra appartenere a certi Zaocys del sudest asiatico e dell’Indonesia, che arrivano a misurare anche 4 m.
Quasi tutti questi serpenti sono “aglifi”, tuttavia vi sono specie di questo gruppo che posteriormente al mascellare hanno una grande zanna scanalata.
È questo il caso del grande Colubro lacertino (Malpolon monspessullanus), tipico della regione mediterranea.
Nelle zone desertiche, vivono numerosi colubri terrestri, ad esempio gli agili Psammophis del Sahara, predatori soprattutto di sauri e i vari Coluber, mentre nel sudest degli Stati Uniti troviamo il Masticophis flagellum.
Qualsiasi colubro è in grado, se è il caso, di arrampicarsi sulle siepi o sui cespugli, ma vi sono specie, soprattutto del genere Elaphe, che tendono a farlo con una tale costanza, che si potrebbero classificare come semiarboricole.
In generale le loro squame ventrali presentano due carene laterali, più o meno accentuate, che favoriscono l’ancoraggio sulle tenui asperità delle cortecce.
I colubri africani del genere Philothammus, rappresentano un buono esempio di questi serpenti semiarboricoli poco specializzati.
Il Philothammus hoplogaster si nutre soprattutto di anfibi, e in certi casi va a prenderseli anche nell’acqua. La capacità d’arrampicarsi è sviluppata al massimo nei serpenti volanti dell’Asia meridionale, che appartengono al genere Chrysopelea.
Nonostante la loro agilità sui rami, non hanno la velocità di molti altri arboricoli, ma riescono ad arrampicarsi sui tronchi verticali e praticamente lisci, dei grandi alberi, meglio di qualsiasi altro serpente, occupando così una nicchia ecologica, scarsamente considerata da altri ofidi.
Esistono anche vari colubridi che, pur non avendo adattamenti particolari, a parte il colore della livrea spesso verde o simile ad una corteccia, vivono soprattutto tra i cespugli e gli arbusti (bush).
È il caso per esempio degli Opheodrys americani, ed anche se in modo meno spinto, per certi strani Psammodynastes dell’Asia meridionale, piccoli serpenti opistoglifi, che assomigliano straordinariamente alle vipere e che recano due grandi denti infissi nella parte anteriore del mascellare.
I veri colubri arboricoli, praticamente localizzati dai biologi zoologi nelle foreste intertropicali più o meno umide, si riconoscono facilmente per il corpo allungato, in certi casi quasi filiforme, e leggermente appiattito lateralmente.
La maggior parte ha placche ventrali carenate. Molti possiedono anche una striscia di squame allargate sulla colonna vertebrale e squame laterali, disposte in file oblique sui fianchi.
In questi serpenti il colore verde è diffusissimo, anche se sono variamente picchiettati di color sabbia o di marrone, mentre altri sono di color bronzo con linee longitudinali chiare.
Quasi tutti hanno testa sottile, il muso appuntito, e grandi occhi sporgenti. Questi caratteri morfologici sono particolarmente accentuati in generi come Dryophis, del sudest asiatico, senza dubbio i più specializzati dei serpenti arboricoli, nel Thelotornis kirtlandii africano, e negli Oxybelis americani.
Tuttavia la maggior parte dei serpenti arboricoli non ha spinto così avanti la sua evoluzione.
Tra le forme un po’ meno evolute, anche se già caratteristiche, citiamo il genere Ahaetulla, asiatico, il genere Dendrelaphis, australiano, il genere Gastropyxis, africano, il genere Leptophis, americano, ecc.
Il genere Langaha del Madagascar, presenta delle curiose appendici nasali che pongono problemi evolutivi differenti, del cui significato parleremo dopo, trattando della fisiologia degli organi e sistemi degli ofidi.
Altri colubri arboricoli, al contrario, sono caratterizzati da una testa larga e massiccia, che sporge all’estremità di un collo sottile.
I Boiga, diffusi dall’Africa tropicale all’Indonesia e relativamente poco specializzati, hanno un corpo molto robusto, mentre gli Imantodes americani o i Lycodryas malgasci ed alcuni altri generi, sono sottili come la specie a testa allungata.
La rapidità, con cui questi “serpenti liana”, come vengono spesso chiamati i veri colubri arboricoli, sono in grado di scomparire tra i rami è stupefacente.
Sono però meno a loro agio, come abbiamo già visto, sui grossi tronchi verticali: sono più adatti insomma a muoversi su un substrato molto discontinuo, che ad arrampicarsi verticalmente.
La loro alimentazione è soprattutto a base di uccelli e di sauri e quest’ultimi sono il piatto forte delle piccole specie.
Numerose altre specie, dalla testa larga e dal corpo assottigliato, come quelle del genere Boiga, sono spesso ofiofaghe.
La maggior parte dei colubri arboricoli possiede grandi denti scanalati, posti all’indietro nel mascellare (definiti particolarmente in passato, per questa caratteristica, come opistoglifi), e tra questi, almeno due, diffusi in quasi tutta l’Africa a sud del Sahara, possono essere pericolosi per l’uomo.
Si tratta dei sottili Thelotornis, dal muso appuntito, e soprattutto del famoso Boomslang (Dispholidus typus ): un bellissimo serpente marrone o verde sauro dal corpo robusto, che può arrivare a quasi 2 m di lunghezza, ed è di costumi semiarboricoli.
In entrambi i casi, il mascellare mobile può girare in avanti in modo che le grandi zanne posteriori si trovino libere, in grado di svolgere la loro funzione difensiva.
Il secreto della ghiandola del Duvernoy, sembra inoltre essere molto più tossico e abbondante che in altre specie di colubri.
Parecchi arboricoli hanno questa volta, sulla parte anteriore di ogni mascellare, uno o due denti più grandi degli altri, che chiaramente servono per afferrare le prede.
I biologi zoologi hanno ipotizzato che questo tipo di struttura fosse in relazione alla cattura di prede molto mobili, come gli uccelli, ma dato che la si trova anche in serpenti terrestri dalle abitudini del tutto differenti, sembra eccessivo parlare di un particolare adattamento ecologico.
Va tenuto presente che i colubri arboricoli sono decisamente più diurni della maggior parte dei serpenti tropicali. Parecchi hanno quindi pupille molto strette, spesso orizzontali, ed un largo campo di visione binoculare.
I colubri ci offrono, oltre a tutte le forme di passaggio tra le specie terricole a quelle arboricole specializzate, anche un’evoluzione progressiva verso animali sempre più ipogei.
Un primo stadio è rappresentato da serpenti come le Coronelle europee (Coronella) o i Lampropeltis americani.
Sono animali non troppo veloci, dal corpo un po’ appesantito, che mangiano volentieri i serpenti (ofiofagi), senza trascurare i sauri (saurofagi) ed i piccoli mammiferi (teriofagi).
Sono inoltre dotati, di un notevole potere di costrizione, già presente nella Coronella e particolarmente sviluppato nei Lampropeltis.
Uno di questi ultimi, che negli Stati Uniti viene chiamato spesso Serpente reale (Lampropeltis getulus), è famoso per l’energia con cui dilania i serpenti della sua taglia, compresi dei crotali velenosi.
I grandi biologi erpetologi Inglesi, Prof H.W. Parker e Prof Angus Bellairs, rispettivamente direttore e curatore del “museo di storia naturale” di Londra, dell’Istituto di Zoologia afferente alla facoltà di Scienze Biologiche della London University e del “giardino zoologico” di Londra, negli anni ’60 del secolo XX, hanno avuto modo di documentare in natura una modesta coronella austriaca (Coronella austriaca) mentre attaccava con grande abilità una vipera europea.
L’afferrò per la testa, arrotolarsi attorno al suo corpo, e la inghiottì senza difficoltà, infischiandosene del veleno.
A tale proposito, ricordiamo che altri serpenti terricoli, più grandi e più veloci, come il Mussurana sudamericano (Clelia clelia), che arriva a 2 m di lunghezza, sono altrettanto noti per le loro abitudini ofiofaghe.
Numerosi colubri di questo tipo, più piccoli e lunghi di solito meno di 50 cm, come la nostra Coronella girondica (Coronella girondica) delle regioni mediterranee, o i Macroprotodon e i Duberria dell’Africa settentrionale e meridionale, i Diadophis e gli Storeira nordamericani, conducono già una vita molto nascosta, e passano gran parte del loro tempo sotto i detriti vegetali o i sassi.
Rappresentano una forma di transizione col gruppo seguente.
Effettivamente diversi colubrini sono divenuti scavatori, pur non raggiungendo il livello di specializzazione dei tiflopidi o degli anfisbenidi (per quanto riguarda i sauri). Vi è una notevole variabilità tra le forme, ancora più accentuata che negli arboricoli.
Un primo gruppo comprende specie di taglia media, dotate di una squama rostrale modificata, ancora notevolmente agili, ma che hanno la tendenza a cercare il loro cibo smuovendo con maggior o minor intensità il terreno o l’interno delle tane.
Tra i meno specializzati, si possono citare i veloci Arizona e Rhinocheilus, del sudovest degli Stati Uniti, che vivono soprattutto in superficie, i Pituophis delle regioni temperate dell’America settentrionale, e la Vipera talpa sudafricana (Pseudaspis cana), dal corpo più pesante. Questi serpenti si nutrono principalmente di roditori, e passano la maggior parte del loro tempo nelle tane di quest’ultimi.
Altri sono sabulicoli (ricordiamo che sono tutte quelle specie vegetali e animali che vivono sulla o nella sabbia o su superfici morbide) e predano i sauri che vivono nei medesimi ambienti.
I Ramphiophis dell’Africa tropicale hanno una squama rostrale appuntita e sporgente.
I Lytorhynchus del Sahara e i Phyllorhynchus del sudovest degli Stati Uniti, che hanno una squama rostrale a forma di scudo, sono più specializzati e passano gran parte del loro tempo nella sabbia.
Lo stesso accade per un altro tipo di sabulicoli, dal corpo più spesso, cilindrico, e dalla testa conica poco distinta dal collo, quali i Chilomeniscus e i Chionactis del sudovest degli Stati Uniti.
Un piccolo gruppo, comprendente soprattutto forme africane come Prosymna e Scaphiophis, è davvero in grado di scavare un terreno abbastanza compatto e questi serpenti compaiono solo di rado in superficie.
Sono animali con un muso sporgente appiattito e appuntito, particolarmente duro, e con alcune squame (internasali o prefrontali) che si sono fuse. Pare che si nutrano di invertebrati.
Infine un ultimo tipo è rappresentato da serpenti piccolissimi e pressoché vermiformi, con il corpo liscio e cilindrico, che stanno nello strato di detriti superficiale o sotto i ceppi, come i Carphophis e i Cemophora del sudest degli Stati Uniti.
Anche il loro regime alimentare è a base di invertebrati, spesso lombrichi.
La sottofamiglia dei Natricini (Natricinae) conta esemplari poco specializzati che menano vita più o meno acquatica.
Questo è un gruppo la cui esatta delimitazione è ancora oggetto di discussioni, e considereremo solo le forme più caratteristiche.
Questi serpenti “aglifi” sono molto abbondanti sia nelle regioni temperate che nelle zone calde e umide.
Il genere Natrix, ad esempio, è diffuso dal Nordamerica all’Indonesia, ma è assente in gran parte del Sudamerica e in Oceania.
L’aspetto generale dei natricini è equivalente a quello dei colubri terrestri classici, con testa ben distinta dal collo e il corpo talvolta un po’ più massiccio. La loro lunghezza, oscilla tra i 60 e i 150 cm.
Nella maggioranza dei casi, la loro dieta si compone principalmente o esclusivamente d’anfibi e pesci, ma la loro tendenza alla vita semiacquatica è molto variabile.
Ad esempio la Natrice dal collare (Natrix natrix), uno dei serpenti più comuni dell’Europa occidentale, vive altrettanto bene in terreni compatti e lontani da qualsiasi sorgente d’acqua, e in questo caso si nutre preferenzialmente di anfibi terrestri, che nelle paludi, nei canneti, o ai bordi dei fiumi, dove nella regione mediterranea ha addirittura il suo habitat preferito.
Invece la Natrice viperina (Natrix maura) e la Natrice tessellata (Natrix tessellata), che si trovano in Europa, nel Nordafrica e nell’Asia occidentale, non abbandonano mai le immediate vicinanze dell’acqua e si nutrono prevalentemente di pesci.
Nell’America settentrionale tutti i rappresentanti del genere Natrix sono di costumi semiacquatici, e le numerose specie del genere Thamnophis presentano tutte le forme intermedie tra animali terrestri e animali legati strettamente all’acqua.
Come per certi arboricoli non specializzati morfologicamente, il loro tipo di vita dipende dal comportamento, e quindi non è deducibile semplicemente dall’esame di un esemplare morto.
Si sa però che nelle regioni temperate anche i natricini più rigorosamente acquatici in realtà trascorrono gran parte del loro tempo fuori dall’acqua, sia nelle loro tane sulle rive durante la notte, soprattutto quando il tempo è cattivo, sia fuori a riscaldarsi al sole.
In tutta l’Asia battuta dai monsoni, uno dei serpenti più comuni nelle risaie è il Natrix piscator, predatore, come dice il nome, di pesci.
Si tratta, contrariamente ai natricini europei e nordamericani, che mordono raramente anche quando vengono afferrati, di animali irascibili e aggressivi.
Nelle stesse regioni, i Rhabdophis, più piccoli, sono meno legati all’acqua e si nutrono soprattutto di anfibi.
Nell’Africa tropicale e meridionale, il posto dei Natrix è occupato dai serpenti semiacquatici dei generi Grayia, Natriciteres e Lycodonomorphus.
Vi sono solo due natricini che presentano un adattamento più spinto alla vita acquatica, avendo le narici poste sulla parte posteriore del muso: sono gli Helicops sudamericani, provvisti di un’unica squama internasale, e gli Opisthotrophis dell’Asia minore, in cui la prefrontale è unica.
Questi ultimi si trovano soprattutto sotto le pietre dei torrenti di montagna, occupando così una nicchia ecologica trascurata da qualsiasi altro serpente.
La ben nota sottofamiglia degli Omalopsini (Homalopsinae) costituisce un gruppo molto omogeneo di colubri, decisamente acquatici e specializzati, che vivono nel sud est asiatico e in Indonesia.
Sono tutti vivipari e opistoglifi, con narici provviste di valvole poste nella parte superiore del muso e occhi molto piccoli, rivolti verso l’alto. Il corpo di solito è molto massiccio, con la testa poco distinta dal collo, e la coda non appiattita lateralmente, di lunghezza normale.
Alcuni di questi, ad esempio l’Enhydris chinensis, e più a sud l’Enhydris enhydris, talvolta addirittura pullulano nelle risaie, e pur non essendo velocissimi, circolano spesso anche sul terreno.
Quest’abitudine è abbastanza radicata anche nei piccoli di Enhydris plumbea, la cui dieta è principalmente a base di anfibi.
Al contrario l’Enhydris bocourti e l’Homalopsis buccata, più grossi (raggiungono 1,15 m di lunghezza) e molto più pesanti, non abbandonano mai l’immediata vicinanza dei fiumi e frequentano soprattutto le grandi distese d’acqua, riposandosi tuttavia spesso a terra, nascosti nella vegetazione o in qualche anfrattuosità delle rive.
I generi Cerberus e Fordonia vivono sopratutto sulle coste, in particolare nelle zone acquitrinose e
a Mangrovie.
Contrariamente agli altri Omalopsini (Homalopsinae), che sono quasi tutti strettamente piscivori, mangiano anche crostacei, soprattutto granchi, che sembrano particolarmente sensibili al loro veleno.
Insieme a due specie di Enhydris, questi generi si estendono fino alla Nuova Guinea e all’Australia settentrionale.
Il più specializzato degli omalopsini, è senza dubbio l’Erpeton tentaculatum della penisola indocinese.
Questo insolito e curioso serpente, lungo dai 60 ai 90 cm, è molto più sottile degli altri rappresentanti della sottofamiglia.
La sua testa allungata e piatta, ma ben distinta dal collo, è indedibilmente dotata di un’appendice squamosa mobile su ciascun lato del muso.
Prendendo in mano un esemplare vivo, si resta sorpresi per la rigidezza del suo corpo, che non ha nulla di un serpente.
Privo com’è di placche ventrali, l’Erpeton tentaculatum si muove con difficoltà sul terreno, ed è certo che non esce mai spontaneamente dall’acqua.
Di solito lo si trova nei grandi corsi, soprattutto fiumi ed estuari, e talvolta in mare in prossimità delle coste. E quindi è adattato a vivere sia in acqua dolce che salata.
I biologi zoologi pensavano che avesse un’alimentazione parzialmente vegetariana, il che sarebbe un caso unico fra i serpenti, ma tutti gli esemplari hanno sezionato, avevano nello stomaco esclusivamente dei piccoli pesci.
Nella sottofamiglia dei Dasipeltini (Dasypeltinae) sono riuniti due colubri, che sotto molti aspetti sono affini ai colubrini, a causa del loro adattamento ecologico molto spinto e per la dieta basata esclusivamente sulle uova degli uccelli.
È probabile che si tratti solamente di un fenomeno di “convergenza evolutiva”, simile in un certo senso a quanto accade circa la presenza di una grande zanna posteriore scanalata che, come abbiamo visto è comparsa indipendentemente in diversi gruppi.
La specie più comune di questo gruppo, la Dasypeltis scaber, abita tutte le zone di savana boscosa e cespugliate dell’Africa a sud del Sahara.
Un’altra specie, la Dasypeltis fasciata, è invece di casa nelle foreste dell’Africa centrale.
Il famoso Mangiatore d’uova indiano (Elachistodon westermanni) è apparentemente molto più raro, tanto che anche nei musei di zoologia e nei giardini zoologici-parchi acquatici se ne trovano ben pochi esemplari.
Sono tutti serpenti piuttosto piccoli, di 60-80 cm, che conducono vita arboricola o semiarboricola, ma non molto agili e con un aspetto del tutto simile a quello dei colubri terrestri classici. La Dasypeltis scaber, d’altra parte, cerca spesso il suo cibo sul terreno.
La sottofamiglia dei Licodontini (Lycodontinae) è rappresentata da colubri con una struttura molto primitiva, anche se sono poi spesso molto specializzati.
Ma mentre molti gruppi sono omogenei e ben caratterizzati, quello dei licodontini suscita ancora discussioni tra i biologi tassonomi, ed è difficile da delimitare con esattezza, dato che molte specie rappresentano punti di transizione con i colubrini e i natricini.
Nel suo insieme la famiglia dei licodontini, se si eccettuano le forme arboricole o acquatiche, è costituita da piccoli colubri terrestri che conducono una vita poco appariscente o addirittura semipogea.
I Licodonti o Denti di lupo dell’Asia meridionale (genere Lycodon), da cui deriva il nome della sottofamiglia, la rappresentano bene.
Lunghi da 30 a 60 cm, con la testa piatta poco distinta dal collo, e con il corpo spesso segnato da anelli bianchi e neri, sono dotati di due grandi denti pieni, posti sull’estremità anteriore del mascellare, e si nutrono soprattutto di piccoli sauri.
I Dinodon del sud della Cina sono molto simili ai Lycophidion.
Anche in Africa vi sono forme un po’ più grandi, come Boaedon e Lemprophis, che assomigliano vagamente alle coronelle europee.
Un gruppo importante dei licodontini è rappresentato dalle numerose specie del genere Oligodon, dell’Asia meridionale e orientale. Più massicci dei precedenti, posseggono una squama rostrale ingrandita a forma di scudo, e spesso cercano il cibo (piccoli sauri e diversi invertebrati come i miriapodi: cento e millepiedi) rivoltando lo strato di terreno superficiale. Numerosi licodontini col corpo cilindrico, la testa piatta poco distinta dal collo, e la coda corta, sono in realtà dei semiscavatori.
Tra questi, i più grossi, come per esempio la Francia abacura che può superare il metro di lunghezza ed abita il sudest degli Stati Uniti, vivono nel terreno molto soffice delle zone acquitrinose e si nutrono di anfibi.
A causa delle loro squame lisce e brillanti, dai riflessi iridescenti, vengono alcune volte chiamati serpenti arcobaleno, nome che condividono con numerosi altri ofidi.
Altre specie più piccole, e talvolta vermiformi, scavano terreni meno umidi.
Ad esclusione di certi terricoli nordamericani, come il genere Haldea, si trovano soprattutto nelle foreste tropicali.
È il caso, tra gli altri, degli Atractus in Sudamerica, dei Miodon e dei Chilorhinophis come dei Aparallactus in Africa, e dei Trachischium in India.
In quasi tutti le placche cefaliche sono ingrandite e talvolta fuse, carattere che si trova anche in diversi serpenti che vivono soprattutto nel suolo, in particolare negli uropeltini.
Si nutrono d’invertebrati, e talvolta di piccoli rettili come Typhlops e Leptotyphlops o di sauri scavatori.
Gli Xenocalamus, diffusi soprattutto in Africa orientale e meridionale, dove il terreno è più secco e duro, presentano una morfologia ancora più modificata, con una testa conica molto allungata ed il muso costituito da una grandissima squama rostrale appuntita, che supera di molto la stretta mascella inferiore.
Gli occhi sono piccoli, e le placche cefaliche rare e molto grandi.
Questi serpenti, lunghi da 40 a 80 cm, sembra si nutrano principalmente di anfisbenidi.
Di casa nel sudest asiatico e nell’Indonesia, la sottofamiglia dei Calamarini (Calamarinae) ricorda certi licodontini scavatori.
Si tratta di piccolissimi serpenti, lunghi spesso meno di 20 cm, pressoché vermiformi, col corpo cilindrico ricoperto di squame lisce e con coda corta, ugualmente cilindrica.
La testa, conica e non distinta dal collo, è ricoperta da poche e grandi placche e il cranio è particolarmente rigido.
Il genere Calamaria, di gran lunga il più importante, è diffuso soprattutto in Indonesia.
Gli altri generi, ad esempio Pseudorhabdion della penisola indomalese, hanno un aspetto simile.
Tutti questi piccoli serpenti scavatori si nutrono di larve di termiti e di lombrichi.
Quella degli Xenodermini (Xenoderminae) è una sottofamiglia che comprende solamente 4 generi localizzati nel sudest asiatico.
Il più particolare è rappresentato da un’unica specie, lo Xenodermus javanicus della Malesia e dell’Indonesia. È un serpente lungo da 40 a 50 cm, abbastanza slanciato, con la testa ben distinta dal collo e la coda lunga.
Sul cranio le placche frontali e parietali sono segmentate e, carattere unico negli ofidi, il dorso e i fianchi sono ricoperti di squame diverse sovrapposte, con una grande e una piccola che si alternano.
Benché questo colubro abbia un aspetto del tutto diverso da quello degli scavatori, vive nella terra molto soffice e umida sul bordo delle risaie e delle paludi, nutrendosi d’anfibi.
Gli altri xenodermini sono più massicci: hanno delle grandi placche frontali e parietali e le loro squame dorsali, tutte uguali, sono spesso leggermente embricate.
Il genere Achalinus comprende una mezza dozzina di specie, tipiche soprattutto della Cina meridionale, che vivono sotto i tronchi abbattuti, o nel terreno superficiale, e si nutrono di
lombrichi.
Gli altri 2 generi, Fimbrios dell’Indocina e Stoliczkaia della fascia sudest del Tibet e delle montagne del Borneo, sono poco conosciuti. Risultano comunque abbastanza simili agli Achalinus.
Tre generi, nettamente separati dal punto di vista geografico, sono riuniti nella sottofamiglia dei Sibinofini (Sibynophinae).
I Sibynophis vivono nel sudest asiatico, i Parasibynophis nel Madagascar, e gli Scaphiodontophis nell’America centrale.
Sono serpenti terragnoli piccoli, da 30 a 80 cm di lunghezza, con la testa massiccia poco distinta dal collo, dotati di numerosissimi denti e di una mandibola molto particolare, essendo il dentale articolato molto lassamente col resto della mascella inferiore. Si sa ben poco del loro comportamento. La specie più comune, il Sibynophis collaris, vive in Indocina nelle foreste di bambù e si nutre di sauri.
La sottofamiglia degli Xenodontini (Xenodontinae) presenta tre generi del Nuovo Mondo: gli Heterodon del Nordamerica, ed i Xenodon e Lystrophis del Sudamerica.
Questi serpenti di taglia media, con il corpo pesante e la testa larga e piatta, hanno in comune, oltre a diversi caratteri anatomici, delle reazioni aggressive spettacolari, seguite da convulsioni e “morte apparente” !
Il loro muso ha un bordo acuto, la squama rostrale è appuntita e leggermente rialzata, ma anche se sono in grado di smuovere rapidamente la terra soffice e di scavarvi o allargarvi delle tane, non sono scavatori in senso stretto, e il più delle volte li si trova a caccia in superficie. Il loro nutrimento è costituito principalmente d’anfibi.
La sottofamiglia dei Dipsadini (Dipsadinae) dell’America tropicale, e i Pareini (Pareinae) del sudest asiatico, hanno aspetto e comportamento identici. Benché si tratti forse di un fenomeno di convergenza evolutiva, è ancora in corso il dibattito se considerarli un’unica sottofamiglia o due distinte.
Sono tutti piccoli serpenti arboricoli notturni, dal corpo relativamente pesante e appiattito lateralmente, una testa molto voluminosa, pressoché cubica, con muso corto e grandi occhi.
Si nutrono principalmente, se non esclusivamente, di lumaconi e chiocciole, e sono strettamente specializzati per questo regime alimentare, soprattutto per la mascella inferiore più rigida di quella degli altri serpenti e che termina con due grandi denti ricurvi. I pareini (generi Pareas e Aplopeltura) e i dipsadini del genere Dipsas sono i più evoluti e specializzati.
Gli altri dipsadini sono un po’ più simili ai colubri classici, come le specie del genere Sibynomorphus, perché sono prive di alcuni caratteri tipici degli arboricoli, come l’appiattimento laterale del corpo e le squame dorsali allargate.
La famiglia degli Elapidi (Elapidae) non è suddivisa in sottofamiglie.
Gli elapidi sono parenti stretti dei colubridi, tant’è che alcuni erpetologi riuniscono addirittura le due famiglie; ma a quanto sembra, non è possibile considerarli come discendenti attuali e più evoluti dei colubri classici.
Nonostante l’assenza quasi completa di reperti paleontologici, la loro abbondanza e la loro diversificazione in Australia, dimostrano che si tratta di un gruppo antico.
La famiglia è localizzata nelle regioni calde, salvo l’Australia dove si estende anche nella zona temperata, ed ha avuto origine nel sudest asiatico e in Indonesia.
Gli elapidi, che sono numerosi in Africa, non hanno comunque raggiunto il Madagascar. Un piccolo gruppo, formato da pochi generi ma da molte specie, vive nell’America tropicale e subtropicale.
Alcuni elapidi sono grandi serpenti terrestri, attivi e vigorosi, che assomigliano, sia nell’aspetto che nel comportamento, a diversi colubri come i Ptyas asiatici o il colubro lacertino della regione mediterranea.
I più famosi, senza dubbio, sono i cobra (genere Naja), a causa del loro numero e delle spettacolari parate difensive che li caratterizzano, con la parte anteriore del corpo che si raddrizza e il “cappuccio” spiegato.
Il Cobra indiano (Naja naja), che raggiunge i 2,50 m, è diffuso in tutta l’Asia meridionale, dall’Iran al sud della Cina e dell’Indonesia.
Questo bell’animale, di un colore che va dal sabbia al nero con anelli un po’ più chiari, talvolta molto sfumati, è assai meno aggressivo di quanto si possa credere, e se si tiene conto di quante persone girano a gambe nude, senza alcuna precauzione, per il tipo di abbigliamento utilizzato in queste regioni, i casi di vere morsicature sono straordinariamente pochi.
Le cose cambiano notevolmente quando si tenta di catturarli, perché in certe popolazioni gli animali sono in grado di sputare il veleno a una distanza addirittura superiore alla lunghezza del loro corpo, prendendo, così sembra, di mira gli occhi dell’aggressore per renderlo cieco.
Il cobra indiano vive volentieri in ambienti umidi e si nutre principalmente d’anfibi, pur non trascurando i roditori.
Il Cobra egiziano (Naja haje) di casa nelle regioni aride dell’Africa settentrionale e orientale, come del sudovest asiatico, non è più aggressivo del suo parente orientale.
Due altri rappresentanti del genere Naja, dotati di cappucci meno sviluppati, sono nelle savane il Cobra nero (Naja nigricollis), un pericolosissimo sputatore, e nelle foreste il Cobra bianco e nero (Naja melanoleuca) di temperamento più pacifico.
Questi tre cobra africani, possono superare i 2 m di lunghezza e hanno un regime alimentare vario: il cobra egiziano preferisce i mammiferi e il cobra nero gli anfibi.
Le due ultime specie africane, Naja nivea e Naja anchietae, sono un po’ meno grandi e tipiche del Sudafrica.
In Africa si trovano anche diversi cobra che appartengono ad altri generi: ad esempio l’Hemachatus haemachatus sudafricano, un animale irascibile che sputa volentieri e con più efficacia di qualsiasi altro rappresentante del gruppo, o il Cobra del deserto (Walterinnesia aegyptia), un serpente più massiccio e meno attivo, anch’esso diffuso nel sudovest asiatico.
Infine, per terminare con gli elapidi terrestri di questo gruppo, occorre ricordare il Cobra reale dell’Asia tropicale (Hamadryas hannah, da alcuni autori chiamato Ophiophagus hannah), il più grande serpente esistente, dopo i boidi, visto che può raggiungere anche i 6 m di lunghezza !
Benché questi animali, una volta adulti, non abbiano praticamente nemici, il loro morso può uccidere un Elefante asiatico (Elephas maximus).
Sono sempre rari, fenomeno che secondo alcuni biologi sarebbe in correlazione col tipico regime alimentare “ofiofago” che li caratterizza.Le loro prede sono rappresentate soprattutto da grandi colubri terrestri, come il genere Ptyas, o da giovani pitoni, il cui numero relativamente limitato, rende evidentemente necessario un grande terreno di caccia, limitandone la densità di popolazione.
Si dice che i cobra reali vivano in coppia, e che attacchino qualsiasi importuno di passaggio, uomo incluso.
Questi grandi animali non sono affatto timidi, e quando avanzano verso un intruso, questo di solito scappa senza esitare.
Esiste, un piccolo numero di elapidi, affini ai cobra, che hanno adottato un modo di vita particolare.
Si tratta del cobra acquatico (genere Boulengerina) dell’Africa tropicale: un grande serpente, color sabbia ad anelli neri, che passa buona parte del suo tempo nei fiumi, nascosto nell’anfrattuosità delle rive, e si nutre di pesci medio-grandi. È certamente un animale poco aggressivo, visto che i casi di morsicatura sono rari e che i pescatori l’incontrano sovente.
Altri due generi, sempre dell’Africa tropicale, sono invece semiarboricoli, con un corpo più slanciato, ed occhi più grandi degli altri rappresentanti della famiglia.
Gli Pseudohaje, si trovano soltanto nella foresta. Tra i Dendroaspis (o mamba), due specie vivono nel medesimo ambiente, mentre la terza, il Dendroaspis polylepis abita le savane boscose dal Senegal al Sudafrica.
I più grandi raggiungono i 4 m di lunghezza, e a causa della loro mole, della loro velocità, e di una certa aggressività, i mamba sono di gran lunga i serpenti africani più temuti, nonostante provochino meno incidenti di certe grosse vipere indolenti.
Il loro veleno è fortemente tossico, e i loro grandi denti anteriori, possono venire raddrizzati con un movimento rotatorio del mascellare.
Sembra che gli adulti siano decisamente meno arboricoli dei giovani, e infatti il più delle volte stanno sul terreno, certamente a causa della loro mole.
Effettivamente, se alcuni grossi serpenti a coda prensile come i boa si arrampicano senza difficoltà sugli alberi, vi si muovono però con fatica, ed è difficile trovare degli arboricoli attivi e veloci, che superino i 2-2,50 m di lunghezza.
I serpenti del genere Bungarus (Bungari o Kraits), dell’Asia meridionale o dell’Indonesia, sono in un certo senso un gruppo intermedio tra i cobra terrestri ed i numerosi serpenti corallo di cui parleremo dopo.
Sono animali grossi, che possono superare tranquillamente i 2 m, col corpo piuttosto pesante, ad anelli neri e gialli, e con la coda corta.
La colonna vertebrale, ricoperta di una fila di squame allargate, è stranamente sporgente, così da rendere la sezione del corpo triangolare.
Se li si confrontano con gli agilissimi cobra, sembrano animali molto indolenti. Quando s’incontrano non cercano infatti né di fuggire, né d’incutere paura. Talvolta addirittura, nascondono la testa, rotonda e massiccia, in una piega del corpo.
Ma è sempre meglio non fidarsi, poiché il loro scatto può essere fulmineo, e come dice un vecchio adagio indonesiano: “Il krait non morde mai, ma se lo fa, sei morto !”
I bungari o kraits sono principalmente ofiofagi.
Con il nome di serpenti corallo, vengono, come accennato, indicate numerosissime specie, quasi tutte molto piccole, con un corpo cilindrico piuttosto massiccio, la testa ovale poco distinta dal collo, e la coda corta.
Molte hanno degli anelli di colore vivace, il più delle volte rossi, che hanno dato origine al nome.
Come si può intuire dalla loro forma, sono animali che se ne stanno nascosti sotto i detriti vegetali, e che mostrano una decisa tendenza a scavare lo strato superficiale alla ricerca di sauri e di piccoli serpenti, che, in quanto saurofagi e ofiofagi, rappresentano il loro piatto forte.
Piuttosto lenti e poco aggressivi, mordono soltanto se si tenta di afferrarli, o anche semplicemente se vengono trattenuti con troppa insistenza, per esempio un biologo che ne vuole osservarne da vicino la morfologia.
In America esistono solamente tre generi, composti però da numerose specie.
I più abbondanti sono i Micrurus. Una specie di questo genere, il Micrurus fulvius, con anelli neri, gialli e rossi, raggiunge l’estremo sud degli Stati Uniti (New Mexico, Texas, Arizona, Florida, Louisiana).
Le altre specie popolano l’America centrale e il Sudamerica fino all’Argentina. La maggior parte sono al disotto del metro di lunghezza, mentre la specie più grande, il Micrurus spixi, raggiunge il metro e mezzo.
I Micruroides, di piccola taglia, sono localizzati nella parte meridionale del Nordamerica, a partire dall’Arizona.
I Leptomicrurus sudamericani hanno un corpo più sottile e allungato di quello degli altri serpenti corallo del Nuovo Mondo, ma un comportamento analogo.
I serpenti corallo più numerosi nell’Africa tropicale e meridionale, appartengono al genere Elapsoidea. Lunghi da 40 cm a 1 m, spesso con anelli neri e grigi, conducono una vita molto nascosta, e forse addirittura semipogea. Si trovano spesso nei termitai, e si nutrono soprattutto di uova di sauri.
Il genere Elaps, da cui deriva il nome della famiglia, comprende solamente due specie: l’Elaps dorsalis e l’Elaps lacteus, ambedue sudafricane.
Si tratta di piccoli serpenti, di 30 a 50 cm di lunghezza, col corpo sottile, molto agili e attivi, che si dibattono vigorosamente se vengono afferrati, senza però tentare di mordere.
Si nutrono soprattutto di serpenti del genere Typhlops e Leptotyphlops e piccoli sauri, passano la loro vita sotto i detriti vegetali o lo strato superficiale, pur non scavando il terreno nel vero senso della parola.
Gli Aspidelaps, anch’essi del Sudafrica, hanno un aspetto del tutto differente, più vicino a quello di certi elapidi australiani, che a quello dei serpenti corallo classici.
Lunghi da 40 a 60 cm, questi animali hanno un corpo abbastanza pesante, una testa corta e larga, provvista di una squama rostrale molto ingrandita a forma di scudo, i cui bordi sporgenti vengono utilizzati dal serpente per spostare la sabbia o la terra soffice.
Nonostante siano realmente adattati a scavare, gli Aspidelaps circolano spesso sulla superficie del suolo.
Quando sono allarmati, appiattiscono il collo, raddrizzano leggermente la testa, soffiano rabbiosamente e non esitano a mordere.
Il gruppo dei serpenti corallo è particolarmente ben rappresentato nell’Asia meridionale e in Indonesia. Vi si trovano diversi rappresentanti del genere Maticora (da alcuni biologi erpetologi chiamato genere Doliophis), dai brillanti colori spesso a strisce longitudinali.
Ad esempio, una delle specie più comuni, la Maticora bivirgata flaviceps ha la testa, la coda e il ventre rosso vivo, mentre il resto del corpo è nero iridato, con una striscia laterale azzurra o bianca.
Questi serpenti, la cui lunghezza oscilla tra i 50 cm e quasi 2 m, sono caratterizzati, da un corpo cilindrico molto allungato, dalla coda corta e dal cuore spostato indietro, a causa dell’estremo sviluppo delle ghiandole del veleno, che si estendono fino al terzo anteriore del corpo.
Sono animali che stanno nascosti ma che, come si può capire dalla loro mole, non sono assolutamente scavatori. Si nutrono spesso di altri serpenti, e non fanno mostra di alcuna
aggressività.
Poiché sono piuttosto rari, si conosce ben poco sulla natura e l’attività del loro veleno, e quindi sulle conseguenze di un eventuale morso.
I serpenti del genere Calliophis, sembrano dei piccoli Maticora (molti misurano meno di 40 cm di lunghezza), ma hanno ghiandole del veleno normali e colori meno vivaci, con chiazze molto spesso trasversali.
Si trovano soltanto sotto pezzi di legno o detriti vegetali. Entrano in attività durante la notte, e la loro dieta è in gran parte composta da piccolissimi serpenti, soprattutto Typhlops e Calamaria. È probabile che alcuni elapidi tipici della Papuasia Nuova Guinea e delle isole vicine, generi come Micropechis, Parapistocalamus, Pseudapistocalamus e Toxicocalamus, siano affini ai serpenti corallo, ma non si sa praticamente niente sul loro comportamento e sulla tossicità del loro veleno.
La fauna degli elapidi d’Australia è così particolare che merita d’essere considerata a parte.
In questo continente non si trova nessun Viperide (Viperidae), ed i Colubridi (Colubridae) occupano soltanto in piccolo numero le foreste tropicali del nordest.
Cosi gli elapidi hanno colonizzato quelle nicchie ecologiche lasciate vuote e, proprio come hanno fatto i marsupiali per quanto riguarda la classe dei mammiferi, si sono diversificati, andando a costituire quella tipica fauna dell’area Australasica-Oceanica al disotto della linea di Wallace (dal nome del biologo e geografo britannico, Alfred Wallace che la delineò).
In Australia vi sono non meno di 30 generi, cioè più che in tutto il resto del mondo.
La maggior parte inoltre è vivipara, mentre tutti gli altri elapidi presenti nei diversi continenti è ovipara.
Stranamente, i diversi tipi di elapidi che abbiamo visto fino adesso sono poco rappresentati in Australia.
Non vi è un equivalente esatto dei numerosi e velenosissimi serpenti corallo africani o americani, e solo una specie, la Pseudonaja textilis, assomiglia ai grandi cobra terrestri.
È un serpente diurno, lungo talvolta più di 2 m, molto attivo e relativamente aggressivo, o perlomeno irritabile, e che si nutre volentieri di altri serpenti.
Nelle foreste del nordest australiane e in Papuasia Nuova Guinea, il famoso Taipan (Oxyuranus scutellatus) ricorda un po’ i mamba africani.
Anche questo è un grande serpente (spesso lungo fino a 2 m e talvolta anche 3,30 m) molto attivo, veloce, dotato di grandi denti, che il mascellare, abbastanza mobile, consente di rialzare ulteriormente.
Tuttavia nemmeno i giovani mostrano una tendenza arboricola.
Nelle regioni in cui vive il taipan è molto temuto, ed effettivamente le conseguenze della sua morsicatura sono di solito mortali, anche per l’uomo. Si è però molto esagerato sulla sua aggressività.
Dato che è un animale molto mobile, generalmente evita il contatto, e quindi è meno pericoloso di specie più indolenti che colpiscono senza dare alcun preavviso, come le vipere.
Gli altri grandi elapidi velenosi australiani sono rappresentati da specie più pesanti e lente del genere Notechis (serpente tigre) e Pseudechis.
Sia gli uni che gli altri possono appiattire il collo, e spesso tutta la parte anteriore del corpo, un po’ come fanno i cobra, ma senza raddrizzarsi.
Il Notechis scutatus, pur non essendo semiacquatico, si trova spesso nei luoghi umidi, un po’ come la nostra Natrice dal collare (Natrix natrix). Al contrario il Notechis ater predilige luoghi secchi. Questi animali sono diurni hanno una dieta mista, e non superano il metro e mezzo di lunghezza.
Ma vi è una particolare razza o sottospecie insulare, che può raggiungere i 2,40 m. E non è questa la sua unica particolarità, perché gli adulti vivono quasi esclusivamente a spese degli uccelli marini : i piccoli delle berte e delle procellarie che nidificano al suolo. Alla schiusa delle uova hanno da mangiare a crepa pancia, ma solo per un breve periodo dell’anno. Poi trovano solo piccoli sauri, sufficienti a fornire ai serpenti neonati il nutrimento indispensabile.
Le due specie più diffuse di Pseudechis (Pseudechis porphyriacus e Pseudechis australis) sono ugualmente di grossa taglia, raggiungendo i 2 m di lunghezza.
Questi serpenti, prevalentemente notturni, hanno un veleno meno tossico di quello dei membri del genere Notechis, e sono spesso ofiofagi (particolarità comune alla maggior parte degli elapidi australiani, ad eccezione del taipan e di quasi tutti i Notechis).
Molte specie, ovviamente, occupano il posto dei colubri mancanti: ne hanno cioè l’aspetto e il comportamento, con una velenosità ridotta, certamente ancora efficace sulle prede, ma che sembra non avere più una funzione di difesa.
Le diverse specie del genere Demansia, la cui taglia oscilla tra 1-2 m, assomigliano molto ai grandi e vivaci colubri terrestri dei generi Elaphe e Coluber.
Come questi sono diurni, e si difendono energicamente.
Il tipo dei colubri terrestri meno attivi, di taglia media o piuttosto piccola, come la nostra coronella europea, è ben rappresentato da numerose specie del genere Denisonia, o dai rappresentanti dei generi Brachysoma, Glyphodon, Drepanodontis, ecc., che si nutrono principalmente di piccoli sauri e sono quasi del tutto inoffensivi per l’uomo.
Altri elapidi australiani, appartenenti ai generi Cryptophis, Lunelaps, e Parasuta, d’aspetto simile ai precedenti, con 40-90 cm di lunghezza, conducono una vita ancora meno appariscente, nascondendosi, durante il giorno, sotto i detriti vegetali o i sassi. Anche qui le prede preferite sono dei piccoli sauri.
Qualche specie piccolissima, di 15-40 cm di lunghezza, è diventata semiscavatrice, con la testa non distinta dal collo, il copro cilindrico liscio e la coda corta.
I generi Melwardia e Rhinelpas sono ancora pochissimo specializzati, con una testa rotonda, leggermente appiattita; i Narophis hanno già un muso allungato e rinforzato.
I Brachyurophis sono degli scavatori sabulicoli, molto caratteristici, con il corpo piuttosto pesante e la testa conica, come i Chilomeniscus del sudovest degli Stati Uniti.
I più piccoli fra questi serpenti, mangiano sopratutto invertebrati, mentre gli altri, si nutrono anche di sauri. Un’ultima specie, la Vermicella annulata, rappresenta un tipo un po’ particolare di scavatori, con una piccola testa e il corpo cilindrico molto allungato. Pare che si nutra esclusivamente di Typhlops.
Quando viene irritato questo serpente assume una strana posizione di difesa, con la testa appoggiata al terreno. Non solleva la coda, come la maggior parte dei piccoli serpenti e dei semiscavatori, ma un largo anello del corpo.
Tra gli elapidi australiani si trovano ben poche forme arboricole, forse perché le foreste si espandono soprattutto nel nordest del continente, una zona in cui vivono dei colubridi e in particolare molte specie che hanno questo stile di vita, come quelle afferenti ai generi Dendrelaphis e Boiga.
È inoltre abbastanza curioso constatare che l’unico genere semiarboricolo di elapidi, l’Hoplocephalus, occupa la periferia di questa zona, al sud e nelle montagne a ovest, in foreste che sono ancora lussureggianti, ma già più fresche.
Si tratta di serpenti lunghi da 75 a 150 cm, con la testa massiccia e il corpo poco assottigliato, compresso lateralmente e con delle placche ventrali carenate. Essendo relativamente poco specializzati, frequentano anche le zone rocciose e le distese a petraie, ed hanno un’alimentazione eclettica. Come molti arboricoli sono facilmente irritabili, e pur non essendo realmente pericolosi, il loro morso può provocare all’uomo notevoli disturbi.
Due generi di elapidi terrestri, Aspidomorphus e Brachyaspis, di taglia media (da 50 a 75 cm), hanno un corpo abbastanza pesante e la testa che si allarga all’indietro, nettamente distinta dal collo. Sono inoffensivi e grandi mangiatori di rane. Diversi sono gli Acanthophis, di poco più grandi, ma dal morso temibile. Ad esempio l’Acanthophis antarcticus, con livrea marrone-bronzo e macchioline poligonali a distribuzione rarefatta di colore nero.
Questi animali corrispondono esattamente ai Viperidi (Viperidae) terrestri, e ne hanno anche l’apparenza, con una larga testa triangolare, ben distinta dal collo corto ma molto sottile, un corpo molto pesante, appiattito dorsoventralmente, ed una coda corta e massiccia, che non viene più usata per la locomozione.
Molto indolenti, ma pronti a mordere senza neanche tentare di scappare, cacciano, stando in agguato, sauri, uccelli e piccoli mammiferi, nascondendosi talora parzialmente sotto la sabbia.
Quando sono eccitati, la loro tozza coda si agita e si raddrizza.
Poiché basta la vicinanza di una preda a far scattare tale stato comportamentale, non è escluso che si tratti di uno dei rarissimi casi di uso vero e proprio di un’esca.
In effetti, alcuni biologi erpetologi australiani hanno dimostrato che uccelli e sauri reagiscono incuriositi a questo movimento, avvicinandosi a tal punto da permetterne la cattura. Tra tutti gli elapidi australiani, gli Acanthophis sono forse i più temuti, sia per la tossicità del loro veleno, sia perché è difficile vederli e colpiscono senza nessun avvertimento. Del resto il nome “vipera della morte”, dato loro dagli aborigeni, è chiaramente allusivo.
Famiglia degli Idrofidi (Hydrophiidae), serpenti marini, conta due sottofamiglie: quella dei Laticaudini (Laticaudinae) e quella degli Idrofini (Hydrophiinae). I laticaudini, dotati di placche ventrali ancora larghe, sono in grado di muoversi sulla terra, e almeno un genere, essendo oviparo, è ovviamente obbligato a farlo. I Laticauda, genere principale dei Laticaudinae, sono serpenti abbastanza grossi, lunghi 80-180 cm, ancora relativamente poco specializzati.
La testa, piccola e rotonda, leggermente distinta dal collo, ha le narici laterali. Il corpo allungato è semicilindrico, provvisto di placche ventrali grandi la metà della sua larghezza. Solo la coda, abbastanza corta, alta e molto appiattita lateralmente, denuncia il loro modo di vita.
La colorazione tipica è caratterizzata da anelli neri e gialli o azzurri, regolarmente alternati.
Delle quattro specie esistenti, due (Laticauda laticaudata e Laticauda colubrina) hanno una distribuzione amplissima, dalle coste del Bengala fino alle isole Tonga e del Giappone meridionale, per trovarli poi anche in Tasmania e in Nuova Zelanda.
La più grande, la Laticauda semifasciata, vive solo nelle Molucche, nelle Filippine e nelle Ryukyu; la più piccola, la Laticauda schistorhynchus, è localizzata nelle isole Figi e Samoa.
In Nuova Caledonia, un gruppo di biologi zoologi, negli anni ’70 del secolo scorso, ha avuto modo di studiare la Laticauda laticaudata e soprattutto la Laticauda colubrina, per la prima volta, nel loro ambiente naturale senza interferenze, durante l’inverno australe. In questa stagione tali serpenti si riuniscono in gran gruppo: varie centinaia e talvolta molte migliaia d’individui su piccoli isolotti di sabbia, all’interno di zone lagunose.
Sembra proprio che ciascun serpente passi parecchie settimane a terra, dove digerisce e fa la muta, e che poi stia in acqua per un lungo periodo di caccia, che lo porta anche a molti chilometri di distanza, talvolta fino alla “grande barriera corallina” !
L’accoppiamento avviene in primavera, dopo di che i Laticauda si disperdono e passano parecchio tempo in mare, tornando però, ogni tanto, sugli isolotti sabbiosi. È qui che, durante l’estate, le femmine depongono le loro uova in buchi scavati nella sabbia umida, sopra alla linea dell’alta marea.
Quando sono sulla terra ferma i Laticauda si muovono pochissimo. Non si nascondono affatto, limitandosi, durante le ore calde, a starsene all’ombra, sotto blocchi di corallo morto o nelle crepe della piccola cresta di sabbia che costeggia la linea dell’alta marea. Stranamente, sembra che questi animali non abbiano la nozione di pericolo: infatti, non tentano mai di fuggire, né si dibattono o mordono quando vengono afferrati.
Nell’acqua marina invece il loro comportamento è molto diverso: sono molto più attivi, si tuffano non appena vedono una barca che si avvicina, e a detta dei pescatori del luogo, non si lasciano catturare senza reagire.
Si nutrono solo di pesci, soprattutto anguille e murene, che cercano esplorando le anfrattuosità delle rocce e dei coralli.
La Laticauda semifasciata, la più grande specie del genere, particolarmente abbondante nelle Filippine, forma anch’essa colonie affollate, questa volta in grotte calcaree, ed è purtroppo oggetto di uno sfruttamento sistematico da parte dell’uomo, per la pelle e la carne.
Una sola stazione di pesca ha registrato 10.000 serpenti l’anno, il che può dare un’idea della strage. Date le loro esigenze, circa ai luoghi della riproduzione, le Laticauda sono infatti facilmente localizzabili.
Le 7 specie del genere Aipysurus, con lunghezze di 0,80-1,70 m, sono già maggiormente specializzate. Il corpo più pesante, la coda più lunga e piatta, le narici poste sulla parte superiore del muso, e le placche ventrali larghe solo un terzo del corpo, mostrano un’evoluzione più spinta e stabile verso la vita marina. L’Aipysurus eydouxi è diffuso dal golfo del Siam alla Papuasia Nuova Guinea e al nordest dell’Australia, mentre le altre 6 specie si trovano solo nella metà orientale di questa zona, che alcune non occupano nemmeno per intero.
Abbiamo poche informazioni sulla biologia di questi animali, che vengono raramente a terra e sembra siano vivipari. Le stesse osservazioni valgono per l’affine genere Emydocephalus, con due specie, localizzate una sulle coste di Formosa e delle Ryukyu, e l’altra in Melanesia.
La sottofamiglia degli Idrofini (Hydrophiinae) raccoglie serpenti marini più specializzati dei Laticaudini (Laticaudinae), ma al tempo stesso più primitivi per vari caratteri osteologici, che fanno pensare si siano separati prima dagli elapidi. Anche qui il corpo è spesso più o meno appiattito lateralmente, la coda abbastanza lunga e le placche ventrali sono ridotte o non differenziate.
Sono tutti animali vivipari, quasi del tutto incapaci di muoversi sul terreno, anche per brevi tratti. I piccoli vengono partoriti in acqua, e come prole precoce sono già in grado di nuotare.
Non è raro trovare questi serpenti, maestri nel camuffamento acquatico, aggrovigliati ai fuchi (alga bruna a tallo laminare) e ad altre alghe: un modo per mimetizzarsi ai predatori e sorprendere le prede. Durante la muta, appena persa la pelle, sono vulnerabili alla vista dei predatori, e lo stesso vale per i neonati.
A parte una sola eccezione, questi serpenti si trovano soprattutto in vicinanza delle coste, talvolta isolati e talvolta in gruppi molto numerosi. Si nutrono esclusivamente di pesci, ma a parte questo si conosce ben poco sul loro comportamento e soprattutto s’ignora il significato dei loro spostamenti individuali. A sud dell’equatore (emisfero australe) il parto avviene di solito in novembre-dicembre, nell’emisfero nord (emisfero boreale) in febbraio-aprile, ma esistono notevoli variazioni, non tanto da una specie all’altra, quanto tra le diverse popolazioni.
L’Hydrophis semperi, chiaramente molto affine a l’Hidrophis cyanocinctus, popola un lago vulcanico nell’isola di Luzon (Filippine settentrionali), collegato al mare con uno stretto passaggio, lungo una decina di chilometri, dalla corrente talvolta rapida.
È chiaro che l’acqua dolce non disturba i serpenti marini, che spesso si avventurano negli estuari e nei grandi fiumi. Ne sono stati catturati alcuni perfino nel Tonle Sap, il grande lago all’interno della Cambogia, dove si riversano, durante la stagione secca, una parte delle acque del fiume Mekong. Un’altra specie, il Pelamis platurus, è decisamente pelagica, e si trova dal Madagascar alle coste occidentali dell’America centrale. Nonostante i caratteri in comune, tra gli idrofini si sono evoluti animali di diverso tipo.
Qualche genere, ad esempio Kerilia o Praescutata, presenta ancora delle proporzioni abbastanza classiche, ma molti tra i serpenti marini sono massicci, con la testa molto poco distinta dal collo e un corpo liscio, leggermente arcuato verso la faccia ventrale. I Lapemys e soprattutto l’Enhydrina schistosa, col corpo pesante circondato da una pelle grinzosa dall’aspetto molto lasso, ricordano un po’ gli acrocordidi. Un altro tipo è rappresentato dalle numerose specie di Hydrophis e dai Microcephalophis.
Questi serpenti hanno una testa piccolissima, ben distinta dal collo lungo e sottile.
Più all’indietro il diametro del corpo aumenta progressivamente, e la parte posteriore, con la coda, risulta enorme rispetto al resto.
I vantaggi meccanici di questa struttura sono evidenti: grazie alla testa piccola ed alla notevole inerzia del posteriore, questi serpenti possono battere facilmente l’acqua, quasi fosse aria, come non accade con gli altri idrofini.
Il Pelamis platurus è infine dotato di una grande testa allungata e di un corpo fortemente appiattito lateralmente, a partire dal collo fino all’estremità della coda, con la curvatura della faccia ventrale particolarmente accentuata.
La maggior parte degli idrofini ha una taglia compresa tra gli 80 e i 130 cm di lunghezza. I più grossi, l’Hydrophis cyanocinctus e l’Hydrophis spiralis, raggiungono i 2,50 a 2,75 m, ma vi sono specie, come l’Astrotia stokesii, che pur non superando 1,60 m sono molto più pesanti. I Pelamis di 60-80 cm, sono tra i serpenti marini più piccoli.
Tutti gli idrofini hanno la faccia ventrale del corpo molto più chiara di quella dorsale, e molti sono più o meno anellati. Il più vivacemente colorato è senza dubbio il Pelamis platurus, nero sul dorso e sulla testa, giallo vivo sui fianchi appiattiti e sul ventre. La presenza di una superficie ventrale più chiara, rispetto quella dorsale, ha un significato ecoetologico, ed è un fenomeno definito di “polarità pigmentaria”, presente un po’ ovunque nel regno animale, nel gruppo dei pesci, come anche nella classe degli uccelli, degli anfibi e dei mammiferi.
La sua espressione più elevata si ha comunque negli organismi marini (pesci, rettili, mammiferi), poiché la presenza di una superficie dorsale scura si confonde (soprattutto per le specie a vita pelagica) con la superficie dell’acqua, che a largo assume una colorazione verde scuro-blu.
Questo impedisce di vedere l’animale dall’alto, mentre la superficie ventrale chiara, che si confonde con la luce che penetra nell’acqua, fa si che l’animale osservato dal basso venga assimilato all’ambiente, camuffandosi a prede e predatori.
La maggior parte degli idrofini vive nella regione che si estende dalla Malesia alle isole Salomone e dalle Celebes all’Australia settentrionale.
Molte specie si trovano soltanto in questi luoghi, e sembra che certe siano addirittura limitate a un piccolo arcipelago o ad una zona della costa.
Tuttavia vi sono molti serpenti marini che hanno una distribuzione più estesa, sia ad est, sia più spesso a nordovest. Sono ancora numerosi sulle coste del mar della Cina meridionale e soprattutto del golfo del Siam, molto meno invece nel golfo del Bengala.
Vi sono soltanto 10 specie che superano verso ovest il livello di Ceylon, ma ben 7 di queste raggiungono il golfo Persico.
Si tratta della Praescutata viperina, dell’Enhydrina schistosa, dell’Hydrophis spiralis, dell’Hydrophis cyanocinctus, dell’Hidrophis ornatus, del Lapemys curtus e del Microcephalophis gracilis.
Essenzialmente pelagico, il Pelamis platurus ha una distribuzione zoogeografica molto vasta, che comprende tutto l’oceano Indiano e la maggior parte del Pacifico, fino a più di 40° di latitudine nord (mar del Giappone) o sud (Tasmania).
Tuttavia sulle coste occidentali del Pacifico lo si ritrova soltanto a livello dell’America centrale, e non sembra sia mai penetrato nell’oceano Atlantico (troppo freddo) malgrado l’esistenza del canale di Panama. Infine sono serpenti molto velenosi, il cui morso può causare sicuramente il decesso di un essere umano adulto, soprattutto quando, come sembra, attaccano in gruppo.
La famiglia dei Viperidi (Viperidae) viene suddivisa in due sottofamiglie: quella dei Viperini le vipere (Viperinae) e quella dei Crotalini (Crotalinae).
Diciamo subito che ad esse appartengono tra le specie di serpenti più velenose e mortifere del sottordine degli Ofidi (Ophidia), anche per l’essere umano.
Nonostante l’apparato del veleno dei viperidi sia senza ombra di dubbio il più perfezionato tra i serpenti, la famiglia presenta anche dei caratteri piuttosto primitivi, soprattutto per quanto riguarda le vertebre e gli emipeni.
Filogeneticamente è certo che questi serpenti derivino da colubridi molto primitivi o da pre-colubridi, e non, come spesso si crede, da elapidi evoluti.
Purtroppo i reperti paleontologici non danno informazioni precise a questo riguardo, dato che i fossili più antichi che si conoscono (Oligocene europeo), appartengono ad animali che erano già viperidi molto caratteristici.
Nell’insieme le forme attuali sono di taglia media o piccola, con la testa che si allarga all’indietro, ben distinta dal collo, mentre il corpo è piuttosto pesante e la coda corta. Per lo più sono vivipari (la parola vipera, è la forma contratta di vivipara) e terrestri, in qualche caso arboricoli, raramente semiacquatici.
I Viperini (Viperinae) sono diffusi nella maggior parte del Vecchio Mondo (mancano soltanto nel Madagascar e in Oceania) e nell’emisfero settentrionale occupano tutta la zona temperata, con una specie che si spinge fino quasi a livello del Circolo Polare Artico !
Sono numerose in Africa, dove probabilmente si trova il centro di dispersione della sottofamiglia. Ve ne è ancora un numero abbastanza notevole in Europa e in Asia occidentale, mentre solo una specie raggiunge il sudest asiatico e l’Indonesia.
Il genere Vipera presenta la particolarità di essersi differenziato nella zona temperata, più precisamente nell’Europa del sud. È probabile che le diverse glaciazioni del Quaternario abbiano avuto un ruolo importante nella formazione delle attuali specie, isolando a diverse riprese popolazioni più o meno grandi.
Ne risulta che la sistematica attuale del genere è notevolmente complessa.
Tuttavia, facendo qualche semplificazione, è possibile distinguere dei gruppi sufficientemente omogenei, a stadi diversi del processo evolutivo. Il gruppo più primitivo (che corrisponde al vecchio genere Pelias) è caratterizzato dalle placche cefaliche poco suddivise, e dalla testa scarsamente allargata all’indietro.
Comprende il Marasso (Vipera berus), che è diffuso nelle foreste temperate, dall’Atlantico al Pacifico e in Scandinavia fino quasi al Circolo Polare Artico, e parecchie forme affini localizzate nelle montagne o nelle steppe che delimitano a sud la sua area di ripartizione.
Alcune di queste, piuttosto piccole (da 35 a 45 cm di lunghezza), sembrano particolarmente primitive, e sono spesso riunite sotto il nome di Vipera ursinii (Vipera ursinii ursinii, in Francia e in Italia in qualche località degli Appennini e delle Alpi del sud, Vipera ursinii macropos nei Balcani, e Vipera ursinii renardi nelle steppe della Romania all’Altai).
Altre, che generalmente vengono considerate semplici razze o sottospecie della Vipera berus (Vipera berus seoanei nel nordovest della Spagna, Vipera berus bosniensis nei Balcani, Vipera berus kaznakovi nel Caucaso), costituiscono invece le forme di transizione verso il gruppo seguente.
Quest’ultimo comprende 3 specie più grandi, fra i 70 e i 90 cm di lunghezza, caratterizzate da una divisione sempre più marcata delle placche cefaliche, dal muso rialzato, e dalla testa allargata all’indietro.
Questi caratteri, già netti nella Vipera aspis della Francia e dell’Italia, si accentuano nella Vipera latasti della Spagna, del Portogallo e del Nordafrica, e più ancora nella Vipera ammodytes presente nei Balcani e nell’Asia occidentale.
Il terzo gruppo infine, abbastanza separato dai precedenti, è rappresentato da vipere grandi e pesanti, lunghe più di 1 m, col muso e la testa molto larga, interamente ricoperte da piccole squame.
Le quattro specie attualmente riconosciute vivono tutte in zone di tipo mediterraneo, più o meno arido, poste a sud dell’habitat degli altri rappresentanti del genere.
Si tratta della Vipera mauritanica del Nordafrica, della Vipera lebetina, diffusa dalle Cicladi al Pakistan occidentale e all’Uzbekistan, della Vipera xanthina, presente in Asia Minore, e della Vipera palaestinae del Medio Oriente.
I legami che uniscono la grande Vipera di Russell (Vipera russelli) con le specie precedenti, non sono affatto chiari.
Sebbene la sua morfologia, nonostante la diversità del muso, ricordi la Vipera lebetina, la sua distribuzione geografica, essenzialmente tropicale (India, sudest asiatico e Indonesia) è aberrante. Del resto è l’unico viperide di queste regioni.
Si tratta di un animale notturno, localizzato nelle foreste rade o nella savana a cespugli, di cui si conoscono diverse popolazioni spesso molto isolate le une dalle altre.
Un’altra vipera abbastanza particolare, e senza dubbio molto diversa dalla precedente, l’Azemiops feae, è localizzata nella striscia a sudest del Tibet.
Se ne conoscono solamente pochi esemplari, che provengono dalle montagne della Birmania, del Tonchino e del sudovest della Cina.
Considerate le grandi placche cefaliche, la testa poco distinta dal collo e le corte zanne, questo serpente lungo da 60 a 80 cm, bianco con sottili anelli neri, è ancora più primitivo della Vipera ursinii ed occupa una posizione isolata tra i viperdi.
Le zone dei deserti caldi, che si estendono dall’Atlantico fino all’estremità occidentale dell’India, sono occupate da numerose piccole vipere che appartengono a generi differenti, ma hanno lo stesso comportamento e uno aspetto molto simile: la testa è larga, ben distinta dal collo, il corpo massiccio con le squame fortemente carenate e molto spesso disposte in file oblique sui fianchi.
Sono tutte notturne, e passano le giornate affossate nella sabbia, lasciando affiorare solo la testa. Inoltre si muovono con una tecnica di locomozione particolare, a ondulazioni laterali, lasciando sulla sabbia tracce inequivocabili del loro passaggio.
La più comune è la famosa Vipera ceraste cornuta, detta anche Vipera delle sabbie (Cerastes cerastes ), così chiamata per le due lunghe squame appuntite poste, a mo’ di corna, sopra agli occhi.
È un animale che vive soprattutto nelle zone rocciose, sebbene talvolta s’incontri anche in biotopi di tipo diverso, dagli altipiani algerini fino alla zona del Sahél in Africa tropicale.
Si nutre di sauri e di roditori.
Una specie affine, un po’ più piccola e senza corna, la Cerastes vipera, vive anch’essa nel Sahara, dove si trova esclusivamente nelle grandi dune (strutture chiamate “ergs” alte anche fino a 200 m) di sabbia.
Qui il suo colore si fonde, mediante un processo detto di “somatolisi” (quel fenomeno per cui la presenza di una livrea colorata, con decorazioni e disegni particolari, coincidenti con le ombre, le luci e i colori dell’ambiente che fanno da sfondo, determina una condizione cromatica, “senza soluzione di continuità”, mimetizzando l’animale nell’ambiente, come per esempio il manto della tigre o la livrea della zebra), con un substrato, grigio o rosa salmone secondo i casi.
Si nutre quasi esclusivamente di sauri: soprattutto dei cosidetti pesci della sabbia e degli acantodattili.
Contrariamente alla maggior parte dei serpenti terrestri, non sembra che queste due specie siano territoriali. Di notte possono percorrere anche parecchi chilometri, salvo nella stagione fredda, quando gli spostamenti sono molto limitati.
Nell’erg (la struttura sabbiosa a duna), più fresco, la Cerastes vipera passa un periodo di vero e proprio letargo, mentre la Cerastes cerastes diventa diurna e sedentaria sulle rocce, scaldandosi al sole durante la giornata e intanandosi durante la notte in qualche anfratto profondo.
Questi serpenti sono particolarmente aggressivi e causano numerosi incidenti mortali, sia perché s’introducono durante la notte negli accampamenti, sia perché è facile calpestarli quando sono infossati nella sabbia.
Si conosce ben poco sulle abitudini delle altre specie di vipere desertiche, generi come Pseudocerastes e Eristocophis che vivono nel sudovest asiatico, dal Mediterraneo al Pakistan occidentale, ma è probabile che siano molto simili a quelle delle ceraste.
Abbastanza stranamente, l’Eristocophis macmahonii, che sembra per il resto particolarmente ben adattata alla vita sabulicola, possiede placche ventrali carenate lateralmente, come i serpenti arboricoli.
Invece le Pseudocerastes mancano di file oblique di squame lungo i fianchi, e si avvicinano un po’ di più al genere Vipera.
Un’ultima specie, l’Echis carinatus, presenta numerosi caratteri in comune con i serpenti precedenti, ma vive in una regione meno arida.
Il suo vastissimo areale comprende una stretta fascia di territorio al limite settentrionale del Sahara, la zona del Sahél e buona parte della regione sudanese, oltre alle regioni corrispondenti del sudovest asiatico e alle parti aride dell’India fino a Ceylon.
Questa piccola vipera, molto aggressiva e dal veleno fortemente tossico, è realmente pericolosa e mortale anche per l’uomo.
Tutti gli altri viperini vivono nell’Africa tropicale e meridionale, dove si sono evoluti in diverse forme.
I Causus sono piccole vipere terrestri ovipare, piuttosto primitive, con grandi placche cefaliche, testa stretta ed un corpo poco pesante.
D’abitudini notturne, sono spesso dotate di ghiandole velenose che si allungano all’interno del collo, e si nutrono principalmente d’anfibi terrestri.
Il genere Bitis è uno dei più notevoli, sia per la sua evoluzione molto spinta, sia per la forte diversificazione a cui è andato incontro nel tempo.
Numerose specie, di mole piuttosto grossa, rappresentano il tipo perfezionato del viperide pesante e massiccio, con la testa piatta, molto allargata all’indietro e ben distinta dal collo, un corpo straordinariamente spesso, e una coda corta e sottile che addirittura non aderisce più al terreno.
Le ghiandole del veleno sono enormi, e i denti di conduzione più lunghi che in qualsiasi altro serpente.
La specie più diffusa, la Vipera soffiante (Bitis arietans ), vive nelle savane dal Senegal al Nordafrica, e ne esiste anche una piccola popolazione residua al nord del Sahara, nel sudovest del Marocco.
Le altre specie vivono nella giungla e sono notevolmente colorate con disegni complessi che includono una stupefacente varietà di colori, dal nero al giallo e dal rosso al blu, passando attraverso varie tonalità di violetto e di verde.
L’insieme, nonostante la sua mole, rende l’animale decisamente poco visibile sul terreno del sottobosco.
Un classico esempio di “somatolisi”.
La specie più grande è la Vipera del Gabon (Bitis gabonica ), che raggiunge 1,80 m di lunghezza, ed è una delle vipere più pericolose al mondo, con un veleno estremamente tossico.
È al tempo stesso vasotossico, emotossico, e citotossico, proprietà che inducono emorragie interne, con fuoriuscite copiose di sangue dalle cavità orali, anali, dalle orecchie e dagli occhi, emolisi, con distruzione dei globuli rossi e drastiche cadute di pressione sanguigna, e necrosi e gangrena dei tessuti nei punti in cui è stato somministrato il morso.
Senza contare che i denti della conduzione del veleno di questa specie solenoglifa sono così grandi, che il morso stesso produce un dolore fortissimo, paragonabile a quello dei canini di un leopardo.
Si tratta di un animale molto riservato. Quando viene disturbato comincia a produrre sbuffi e rumori bassi molto pronunciati e persuasivi, e se il disturbo persiste attacca fulmineamente, irrompendo con il suo possente morso.
La Bitis nasicornis un poco più piccola è provvista di appendici cornee che si alzano verticalmente all’estremità del muso.
Queste massicce vipere si nutrono soprattutto di roditori e sono piuttosto indolenti, per lo meno fino al momento in cui decidono di colpire.
Nonostante siano animali poco aggressivi, a un punto tale che spesso si lasciano manipolare senza reagire, causano numerosi incidenti gravi e mortali, perché non sono affatto inclini né a fuggire, né a manifestare un comportamento d’avvertimento, se non con sbuffi, quando sono veramente al limite della sopportazione, come prima accennato.
In Sudafrica numerose piccole Bitis occupano chiaramente il posto delle ceraste e delle forme affini del Nordafrica e dell’Asia occidentale.
La Bitis peringueyi, lunga 25 cm, vive nelle dune di sabbia del Namib meridionale e si muove velocemente con ondulazioni laterali.
La Bitis paucisquamata e la Bitis cornuta, un po’ più grosse e meno specializzate, occupano zone diverse del sudovest africano, di preferenza sabbiose, mentre la Bitis atropos sembra sia localizzata nelle regioni rocciose e montagnose del sudest africano.
Tutte queste Bitis più piccole si nutrono principalmente di sauri.
La Bitis caudalis, lunga 40-45 cm, frequenta biotopi diversi, sia di sabbia che di roccia, ed è certamente la vipera più comune in tutto il sud dell’Africa.
Le Atheris, delle foreste e delle savane a cespugli dell’Africa tropicale, sono vipere arboricole molto simili alle Bitis, ma dall’aspetto più uniforme.
I loro corpo è meno tozzo, la testa larghissima e ben distinta dal collo, le squame fortemente carenate e la coda prensile.
Come tutti i viperidi arboricoli, il loro modo di muoversi tra i rami ricorda un po’ quello dei boidi.
Sono cioè animali che si muovono piuttosto lentamente, mantengono la presa servendosi della loro coda prensile e se ne stanno immobili in agguato per lunghe ore.
Sono serpenti abbastanza piccoli (da 50 a 80 cm, di lunghezza), verdi o variamente macchiettati di giallo su fondo scuro, che si nutrono di prede diverse, sopratutto di anfibi e, hanno un carattere irritabile.
Soltanto eccezionalmente, il loro morso può avere conseguenze letali per l’uomo.
Due piccole specie rare, terrestri o semiarboricole, appartenenti ai generi Hindii, del Kenya e Supercilliaris, in Tanganica, un tempo considerate appartenere al genere Vipera, sono ora classificate tra le Bitis, anche se secondo alcuni biologi zoologi si tratta di specie un po’ aberranti del genere Atheris, come per esempio l’Atheris squamigera.
Un terzo viperino africano l’Adenorhinos barbouri, si scosta ancora di più dal tipo comune, sia per il suo regime alimentare, composto in buona parte di invertebrati e soprattutto di lombrichi, sia per una minore segmentazione delle placche cefaliche, probabilmente in rapporto alla sua dieta e collegata alle sue abitudini di serpente semiscavatore.
Vi è poi tutto il gruppo di vipere africane, talvolta riunite in una sottofamiglia particolare, che conduce realmente una vita sotterranea.
Questi serpenti, riuniti nel genere Atractaspis, sono già degli scavatori piuttosto specializzati, che si trovano non soltanto nella terra soffice della foresta, ma anche nei terreni più compatti delle savane.
Stranamente una specie l’Atractaspis engaddensis vive nel Sinai e nel sud d’Israele.
Tutte queste vipere, lunghe da 40 a 70 cm, hanno corpo cilindrico e la coda relativamente corta e spessa, tipica dei serpenti scavatori.
La testa, quasi non distinta dal collo, è caratterizzata dal muso piuttosto lungo, con una squama rostrale spesso appuntita e gli occhi piccoli, ed è ricoperta di grande placche.
Gli Atractaspis si nutrono soprattutto di piccoli rettili sotterranei, come Typhlops, Leptotyphlops, di sauri, come gli anfisbenidi, e molti Feylinia, in sostanza sono ofiofagi e saurofagi.
Contrariamente a quello che ci si potrebbe attendere dal loro tipo di vita, questi animali hanno dei denti proporzionalmente più lunghi di quelli di molti altri viperidi. Evidentemente questi non vengono sfruttati sottoterra, e in superficie gli Atractaspis colpiscono il più delle volte senza aprire bocca, con un movimento laterale e anteroposteriore della testa, affondando un solo dente. Il veleno, sembra essere ben poco tossico.
La sottofamiglia dei Crotalini (Crotalinae) si differenzia da quella dei Viperini (Viperinae) soltanto per la presenza di un organo di senso particolare, posto tra l’occhio e la narice, che ha la medesima funzione legata alla sensibilità termica, che hanno le fossette labiali dei Boidi (Boidae), dette “fossette termiche”.
Permettono di “ vedere col calore”, di percepire la presenza di una preda o di un predatore sfruttando il calore emesso dal corpo, veicolato dal sangue che vi scorre.
La ripartizione geografica delle due sottofamiglie dei Viperinae e dei Crotalinae è complementare.
I crotalini si trovano principalmente nel Nuovo Mondo, dove certamente è avvenuta la loro differenziazione e la loro specializzazione evolutivamente parlando, e nell’Asia orientale e centrale, tutte regioni che appaiono molto povere di viperini.
I crotalini, comprendono due gruppi nettamente distinti, i serpenti a sonagli (generi Crotalus e Sistrurus) ed i serpenti privi di sonaglio (generi Trimeresurus, Lachesis e Agkistrodon).
Ciascuno di questi gruppi, si divide a sua volta in specie provviste di grandi placche cefaliche, carattere considerato più primitivo (generi Sistrurus e Agkistrodon) e in forme la cui testa è interamente ricoperta da piccole squame.
Come i viperini, i crotalini sono dei serpenti essenzialmente terrestri, con un certo numero di specie arboricole. Nessuno però è scavatore (non hanno strutture così primitive), mentre esiste una forma semiacquatica.
Salvo pochissime eccezioni ( la Lachesis mutus, detta anche Lachesis muta, e qualche Agkistrodon e Trimeresurus, terragnolo del sudest asiatico), i crotalini sono tutti vivipari.
Tolta una specie, i serpenti a sonagli si trovano solo in Nordamerica, soprattutto nella parte meridionale degli Stati Uniti e nel Messico.
Il genere Crotalus è di gran lunga il più importante.
La taglia delle varie specie presenta una notevole variabilità (si va da 40 cm a 2,40 m), mentre l’aspetto generale è decisamente uniforme. Si tratta sempre di serpenti dal corpo piuttosto pesante, con la testa triangolare ben distinta dal collo, e la coda che termina con un sonaglio di dimensioni variabili.
Tutti i Crotalus sono essenzialmente predatori dei mammiferi e strettamente terrestri. Ma le differenti specie occupano diverse nicchie ecologiche, in funzione del clima, della massa vegetale e della natura del substrato.
La specie più settentrionale, il Crotalo dei boschi (Crotalus horridus ), ben noto ai primi coloni inglesi, vive nelle foreste a latifoglie di tutto il nordovest degli Stati Uniti e dalla frontiera canadese fino al golfo del Messico.
Il Crotalo verde (Crotalus viridis) è invece tipico delle regioni più scoperte, in particolare delle grandi pianure del centro del continente, fino al Saskatchewan meridionale e degli altipiani che si trovano tra le montagne Rocciose ed il Pacifico.
Come le ceraste, sembra che durante l’estate sia più o meno erratico, pur restando fedele ai rifugi profondi in cui trascorre l’inverno in ibernazione.
In questa immensa regione geografica, si sono differenziate numerose razze o sottospecie, cosicché questo crotalo è uno dei serpenti, che presenta la maggior variabilità d’aspetto.
Nelle fitte foreste tropicali o subtropicali vivono pochi serpenti a sonagli, tra i quali il Crotalus adamanteus della Florida, che raggiunge anche i 2,10 m di lunghezza, ed il Crotalus durissus di poco più piccolo.
Quest’ultimo, diffuso in tutta l’America centrale e nella maggior parte del Sudamerica a est della Cordigliera delle Ande, è giustamente temuto per la tossicità del suo mortale veleno.
Sia la prima che la seconda specie non sono rigidamente di foresta, e si trovano anche nelle radure e nelle zone cespugliose (bush), ma il loro habitat è limitato alle zone umide e calde.
Comunque, a parte queste eccezioni, i serpenti a sonagli sono sempre ospiti di zone a carattere decisamente mediterraneo, più o meno aride, che occupano tutto il sudovest degli Stati Uniti, dalla California al Texas e la maggior parte del Messico.
Su 27 specie note, 23 si trovano in questo tipo di regione.
Il Crotalo diamantino dell’ovest (Crotalus atrox) può superare i 2,40 m di lunghezza, ed è quindi il più grande rappresentante del genere Crotalus, seguito a ruota dal suo congenere il Crotalus adamanteus, autoctono della Florida. Ma per nostra fortuna si tratta di un animale relativamente raro, che causa pochi incidenti.
Le specie più piccole, come il Crotalus pricei ed il Crotalus transversus, ambedue messicane, non superano rispettivamente i 48 e i 58 cm di lunghezza.
Come regola generale, nell’alimentazione di queste specie i sauri hanno un posto più importante di quanto non l’abbiano nei serpenti a sonagli più grossi, che come accennato sono preferenzialmente teriofagi.
Qualunque sia la loro mole, a questi rettili piace vivere nelle zone cespugliose e accidentate, passando le loro giornate nelle tane dei roditori o in rifugi molto nascosti, da cui escono di preferenza la notte.
Alcune specie, come il Crotalo delle rocce (Crotalus lepidus), sono principalmente rupicole, altre invece, dette sabulicole, frequentano principalmente le zone sabbiose.
Il più specializzato è sicuramente il Crotalus cerastes, un piccolo crotalo lungo 50-60 cm che assomiglia in maniera stupefacente alla vipera cornuta del Sahara, con un comportamento molto simile, e che come quella si muove per ondulazioni laterali.
È questo un’interessante fenomeno di “convergenza evolutiva” funzionale, che si riscontra anche in alcune specie del genere Bitis dell’Africa sudoccidentale.
I Serpenti a sonagli, provvisti di grande placche cefaliche (ad es. il genere Sistrurus), contano solo tre specie.
La più grande, il Sistrurus catenatus, vive nelle grandi pianure del centro degli Stati Uniti, dal sud del Nebraska al nord del Messico, con qualche popolazione che raggiunge verso est la Pennsylvania, dove questi animali si trovano però solo in piccole zone delle praterie, spesso paludose, che la foresta non ha colonizzato alla fine delle glaciazioni del Quaternario.
Il Crotalo pigmeo (Sistrurus miliarus) è di casa nel sudest degli Stati Uniti, dal Texas centrale alla Carolina del Nord; il Sistrurus ravus, ancora più piccolo, nel Messico meridionale. Tutti questi serpenti del genere Sistrurus per la loro taglia modesta (45-95 cm) sono poco pericolosi, anche se il loro veleno non è meno tossico di quello del Crotalus.
La loro dieta, molto varia, include anfibi e anche insetti, predati soprattutto delle piccole specie e dai giovani individui.
Anche i crotalini privi di sonaglio, comprendono sia specie con grandi placche cefaliche, sia specie dalla testa ricoperta di piccole squame.
Fino a poco tempo fa, la maggior parte di quest’ultime, venivano riunite in due generi diversi : i Bothrops che abitano l’America centrale e meridionale, ed i Trimeresurus di casa nell’Asia orientale e in Indonesia.
In realtà non vi è nessun carattere morfologico o etologico che giustifichi questa divisione: in ambedue i casi, si tratta di serpenti il cui aspetto generale è simile a quello dei Crotalus, eccettuata l’assenza del sonaglio.
I più grossi, sempre terrestri, possono superare i 2 m di lunghezza.
Un buon numero delle numerose specie al disotto di 1-1,20 m, è di costumi arboricolio.
Tolto il fatto che hanno squame decisamente meno carenate, questi rettili sono molto simili al genere Atheris africano.
La più nota delle forme terricole è certamente il Trimeresurus atrox (alcuni biologi erpetologi preferiscono chiamarlo Bothrops atrox) dell’America centrale e meridionale, di cui il famoso “ferro di lancia” della Martinica è una varietà.
Essendo ghiotti di roditori (si dimentica spesso quanto siano utili a questo riguardo) frequentano spesso le piantagioni di canna da zucchero, e dato che si tratta di una specie vigorosa, rapida nel colpire, gli incidenti ai danni dei contadini sono purtroppo numerosi e mortali.
Il Brasile e i paesi limitrofi sono senza dubbio la patria d’elezione dei grandi Bothrops terrestri.
Oltre al Trimeresurus atrox, vi si trovano numerose specie che sfiorano 1,50 m. Ad esempio il Trimeresurus jararaca e il Trimeresurus alternatus.
Una mole simile l’hanno anche i più pericolosi tra i Trimeresurus asiatici, come Trimeresurus flavoviridis, chiamato “habu” nelle isole Ryukyu e a Formosa.
Il Trimeresurus haulbacki, appena più piccolo, è conosciuto soltanto nell’alta Birmania. Si tratta di una specie ovipara, e sembra che le femmine stiano a guardia del luogo in cui hanno deposto le uova.
I piccoli Bothrops terrestri sono diffusi soprattutto nell’America meridionale, spesso in montagna.
Generalmente, presentano un corpo massiccio e un carattere irascibile.
Il Trimeresurus nummifera, dell’America centrale, ha squame fortemente carenate, e viene chiamato “vipera saltatrice” perché colpisce con una tale energia che spesso si stacca completamente da terra.
Due specie, il Trimeresurus lansbergii dell’America centrale e il Trimeresurus ammodytoides dell’Argentina, uno dei pochi Bothrops che si spinga nelle zone temperate, hanno un muso rialzato come quello della vipera ammodite europea.
In Asia i piccoli Trimeresurus sono rari e si trovano soprattutto in montagna.
Il Trimeresurus monticola, che è oviparo e non supera i 75 cm, vive nelle montagne della penisola indocinese e a Sumatra.
Una strana specie delle alte colline del sud dell’India e di Ceylon, il Trimeresurus macrolepis, che mostra già una certa tendenza alla vita semiarboricola, ha la testa ricoperta di squame irregolari ma notevolmente allargate.
Il Trimeresurus purpureomaculatus pare sia l’unico rappresentante asiatico di questo genere, e che preferisca vivere tra le rocce come specie rupicola, in riva al mare e in montagna.
Al contrario delle forme terricole, le specie arboricole sono molto più numerose in Asia che in America.
Nel Nuovo Mondo se ne conoscono solo 8 specie, cioè meno di un quarto dei Bothrops, mentre i biologi erpetologi ne hanno contate almeno 20 in Asia, il che rappresenta più dei quattro quinti delle specie della regione.
Questi crotalini arboricoli sono dei serpenti di taglia media o piccola (il più grande raggiunge al massimo 1,20 m, di lunghezza), spesso di colore verde, con una sottile linea bianca sui fianchi e la coda prensile rossa o arancione. Ve ne sono poi alcuni picchiettati variamente di marrone o di nero, colori tipici della corteccia degli alberi e non delle foglie.
Nel loro insieme si tratta di ofidi un po’ meno agili dei membri del genere africano Atheris e più predisposti a girare ogni tanto sul terreno durante la notte.
Molti invece stanno sui cespugli o su piccoli alberi fronzuti e non molto alti, con la coda prensile attorcigliata attorno a un ramo. La loro alimentazione, molte volte abbastanza varia, comprende piccoli mammiferi, uccelli, sauri e anfibi.
In linea di massima sono animali poco aggressivi, ma come molti arboricoli, se si tenta di catturarli colpiscono a ripetizione.
Un tempo venivano dai biologi tassonomi riuniti sotto il nome di Trimeresurus gramineus, ovvero “le vipere verdi degli alberi”, conosciute anche con il nome di “crotalini del bambù”, che sono estremamente comuni in tutto il sudest asiatico e in Indonesia.
Attualmente questa “superspecie” viene suddivisa in numerose specie, spesso piuttosto difficili da catalogare e determinare con esattezza. Il colore verde foglia della pelle e gli occhi giallo dorato, fanno di loro forse le più belle vipere che esistano sulla Terra.
Il Trimeresurus wagleri della Malesia, dell’Indonesia e delle Filippine, picchiettano di nero, verde e giallo, è un animale indolente e molto meno irascibile dei precedenti e si trova con molta facilità tra
le Mangrovie.
Il Trimeresurus cantori delle isole Nicobare e Andamane (tali isole formano come territorio dell’India – Union Territory – due arcipelaghi dell’oceano Indiano posti nel golfo del Bengala e paradossalmente più vicini alle coste della Birmania e di Sumatra che a quelle Indiane) è senza dubbio la più grande tra le specie arboricole di questo genere, con femmine che raggiungono 1,15 m di lunghezza. Come tutti i rappresentanti del genere, i maschi, sono decisamente più piccoli.
Le specie arboricole del Nuovo Mondo sono localizzate nell’America centrale e nella parte nordest dell’America meridionale.
Una di queste, il Trimeresurus schlegeli, ha delle piccole corna sopra gli occhi.
Nell’insieme si tratta di animali non molto abbondanti, e si conosce piuttosto poco della loro biologia, in particolare dei loro costumi e del comportamento.
Abbiamo già detto che i Trimeresurus asiatici hanno tendenze spiccatamente più arboricole dei loro congeneri americani, ma anche un’altra particolarità : il loro veleno è poco tossico.
Ad eccezione di quelli inferti dal Trimeresurus flavoviridis, il pericoloso habu delle Ryukyu, i loro morsi vengono generalmente considerati benigni, e in ogni caso non mortali.
Curiosamente si realizza qui, biologicamente parlando, l’inverso di quello che accade tra gli Agkistrodon, dove le specie asiatiche sono molto più temute di quelle americane.
L’ultimo dei crotali privi di sonaglio e con la testa ricoperta di squame, è il famoso Lachesis mutus sudamericano, unico rappresentante del suo genere. La lunghezza degli esemplari più grandi può superare ampiamente i 3 m, e trattandosi di animali dal corpo robusto, può capitare che il loro peso superi quello dei grossi cobra reali.
Si tratta di un serpente strettamente terrestre, non aggressivo, ma senza paura, il cui nome universalmente accettato di “terrore dei boschi” non ha bisogno di commenti.
Il Lachesis mutus è oviparo, ed è forse l’unico crotalino americano che presenti questa particolarità.
Tutti i crotalini privi di sonagli, e con larghe placche cefaliche, sono riuniti nel genere Agkistrodon o Ancistrodon, un termine quest’ultimo più eufonico, preferito dai biologi francesi.
In America ne esistono 3 specie, chiamate volgarmente “mocassini”.
Il più grande, l’Agkistrodon piscivorus (o Ancistrodon piscivorus) del sudest degli Stati Uniti, arriva a 1,50 m di lunghezza.
È un serpente scuro, dal corpo molto pesante, le cui abitudini semiacquatiche sono uniche tra i Viperidi (Viperidae).
La sua dieta, è a base essenzialmente di pesci e anfibi.
Il Mocassino testa di rame (Agkistrodon contortrix ), più piccolo, molto comune nella parte orientale degli Stati Uniti, deve il particolare nome alla caratteristica (spesso con anelli rosa pallido e salmone) sfumatura ramata presente sulla sua testa.
L’Agkistrodon bilineatus, messicano e anch’esso terrestre, è abbastanza simile, ma presenta, soprattutto sulla testa, delle sottili strisce bianche molto nette, di bellissimo effetto.
Questi tre serpenti sono poco pericolosi, e tendono a intimidire l’avversario piuttosto che a morderlo.
L’Agkistrodon piscivorus ha anche l’abitudine, molto rara nelle specie velenose, di mostrare aperta la grande bocca, le cui mucose chiarissime spiccano sul colore scuro del corpo.
Il veleno comunque è poco tossico.
Contrariamente ai Trimeresurus, gli Ancistrodon asiatici sono tutti terrestri e sono più numerosi e più pericolosi dei rappresentanti americani del genere.
L’Ancistrodon halys, diffuso dal Giappone al Volga meridionale, e dal sud della Siberia al Tibet fino alla Cina meridionale e Formosa, è l’unico crotalino che raggiunge l’Europa.
Pochi rettili hanno un’area di ripartizione altrettanto vasta, ed effettivamente questo piccolo serpente di 60 cm, benché sia tipico della steppa, vive anche in biotopi e climi diversi, il che denota una elevatissima capacità di adattamento e di acclimatazione.
Ne sono state descritte 8 razze o sottospecie, che chiaramente presentano, oltre a diversità morfologiche, anche differenze fisiologiche.
L’Ancistrodon acutus della Cina meridionale, di Formosa e del Vietnam del nord, raggiunge 1,80 m di lunghezza, ed è senza dubbio il più grande rappresentante del genere. Pigro ma irritabile, vive soprattutto nelle zone sassose delle montagne, coperte dai boschi.
L’Ancistrodon rhodostoma (ricordiamoci che Ancistrodon è equivalente ad Agkistrodon, si tratta solo di una diversa pronuncia fonetica), meno grande ma più vivace, sostituisce la specie precedente nella penisola Indomalese, a Sumatra e Giava.
È causa di numerosi incidenti, in particolare durante i dissodamenti per la sistemazione delle piantagioni di caucciù.
Gli altri ancistrodonti asiatici sono tutti al disotto dei 60 cm di lunghezza, e l’Ancistrodon nepa, di Ceylon, non raggiunge neanche i 40 cm. Si nutrono soprattutto di piccoli roditori e sauri.
L’Ancistrodon himalayanus, dell’ovest dell’Himalaya, è certamente uno dei serpenti che arrivano alle altitudini più elevate. Vive normalmente tra i 2000 e i 3500 m, ma ne sono stati catturati esemplari a più di 5000 m di quota !
Le altre due specie di ancistrodonti asiatici, l’Ancistrodon hypnale e l’Ancistrodon strauchi abitano rispettivamente il sud dell’India, con Ceylon, e le montagne della Cina sudoccidentale.
L’Ancistrodon rhodostoma è oviparo, e sembra che anche in questa specie le femmine sorveglino il luogo della ovodeposizione ed incubazione delle uova. Il che d’altronde potrebbe semplicemente significare, biologicamente parlando, che sono degli animali molto sedentari.
Risulta evidente, che in Asia i crotalini, come quelli del genere Agkistrodon, soprattutto nella zona temperata o in montagna, ed i Trimeresurus, unicamente nelle zone tropicali e subtropicali, hanno una distribuzione praticamente complementare a quella dei viperini.
Solo la Vipera di Russell (Vipera russelli) coabita abbondantemente con loro, pur occupando una nicchia ecologica diversa, dato che nella sua area di ripartizione non esiste nessun crotalino di taglia simile.
Ai limiti della sua distribuzione geografica, l’Agkistrodon halys viene spesso a contatto, con diverse vipere come la Vipera berus al nord, la Vipera ursinii renardi ad ovest, e la Vipera lebetina a sudovest, ma sembra che a livello locale non vi sia una vera e propria coabitazione, poiché l’Agkistrodon halys necessita di biotopi più caldi e più secchi delle due prime specie di vipere, e più freddi dell’ultima.
Fisiologia comparata degli organi e sistemi negli Ofidi
La pelle
Una caratteristica peculiare della pelle dei rettili, è quella di essere secca e squamosa, poverissima di ghiandole.
Come in tutti gli altri vertebrati è formata da due strati principali: l’epidermide, lo strato esterno, derivata dall’ectoderma, il foglietto più esterno dell’embrione, e dal derma, lo strato più interno di origine mesodermica, il foglietto intermedio dei tre foglietti ectoderma, mesoderma e endoderma in cui gli embrioni dei vertebrati si suddividono durante lo sviluppo ontogenetico.
Le squame, caratteristica di tutti i rettili afferenti all’ordine degli Squamata, derivano principalmente dall’epidermide, tuttavia anche il mesoderma partecipa alla loro formazione.
In ciascuna specie, le squame hanno una forma caratteristica e una disposizione abbastanza costante e specifica. E dato che molto spesso sono facili da descrivere e da contare, forniscono ai tassonomi utilissimi criteri di classificazione, soprattutto quando si devono fare distinzioni tra specie, sottospecie o razze molto affini.
Lo studio della loro morfologia, ed il conteggio delle file di squame, sono quindi aspetti essenziali per far evolvere e ottimizzare la sistematica degli Squamata e nello specifico degli Ophidia.
Senza dimenticare che i biologi considerano la pelle un vero e proprio organo, che in tutte le specie animali, dove è più o meno specializzata, particolarmente nei vertebrati, è la matrice che interfaccia il mondo esterno, l’ambiente, con quello interno dell’animale.
E sono ascrivibili ad essa meccanismi sensoriali-nervosi, esocrino-endocrini e ecoetologici-ecofisiologici.
Ad esempio, le varie colorazioni che la caratterizzano, hanno funzioni essenziali nella selezione sessuale e quindi nella biologia riproduttiva di una specie, fungendo da “attrattori sessuali”, come i caratteri di dimorfismo sessuale permanente o stagionale, ma servono anche per i meccanismi di camuffamento, mimetismo e mimetizzazione, per sfuggire a un predatore o per catturare una preda.
Questo, come accennato, sia per il meccanismo della “somatolisi” o anche per “omocromia”, come pure, nel caso dei serpenti marini, della “polarità pigmentaria”. E ciò vale per tutte le specie animali costituenti il Regno animale e, mediante altre strutture, anche per i rappresentanti del Regno vegetale.
In relazione ai vari serpenti corallo, vale la pena d’accennare che durante gli anni ’50 fu proposta una teoria sul ruolo mimico della loro livrea, detta teoria del “mimetismo di Mertens”, d’interpretazione piuttosto complicata ed oggi accantonata dai biologi.
Il mimetismo mertensiano fu scoperto per la prima volta dal biologo W. Wickler che suggerì questo appellativo in onore di R. Mertens, biologo erpetologo, che studiò a fondo i serpenti corallo del Nuovo Mondo, animali nei quali questo fenomeno mimetico è stato frequentemente riscontrato. Il nome “serpenti corallo” dato a questi rettili, nasce dalla vistosa colorazione costituita da bande alternate di colore rosso, nero e giallo, che caratterizza la loro livrea.
Questi ofidi appartengono a due diverse famiglie, gli Elapidi, velenosi e spesso letali, ed i Colubridi, innocui.
In particolare il discorso mimetico mertensiano si basa su tre o piu’ componenti con colorazione analoga.
Nella situazione più semplice si hanno due mimi ed un solo modello e precisamente: a) un colubride appetibile (mimo); b) un elapide mortale (mimo) e c) un elapide moderatamente velenoso (modello).
La specie ‘b” pur essendo protetta non puó rappresentare il modello, in quanto il suo predatore non puó essere in grado di fare esperienza su di essa poiche’ in genere muore dopo aver attaccato la preda. Allo stesso modo, anche la specie “a”, in quanto innocua, non avrebbe nulla da “insegnare” al predatore affinchè la eviti.
Quindi è la specie ‘c’, moderatamente velenosa, ad avere i migliori requisiti per rappresentare il modello per entrambi i mimi.
Tornando ai serpenti ed la loro pelle, nella maggior parte delle specie la superficie inferiore è ricoperta di una sola grande fila di squame, dette ventrali, che hanno una funzione importante nella locomozione.
La presenza di queste grandi squame, che costituiscono un’indispensabile fonte d’attrito per strisciare, caratterizza i serpenti, anche se talora hanno modificato un po’ il loro ruolo, come nei boidi, con scaglie ventrali laterali che ricoprono solo i 2/3 della superficie ventrale, in alcune specie ipogee afferenti agli ordini Typhlops e Cylindrophis, e nei serpenti marini e alcuni dulciacquicoli, ove queste squame si sono fatte piccole, appena più grandi di quelle caudali e dorsali.
La pelle di ogni animale deve avere la possibilità di rinnovarsi nel corso della vita, per compensare l’usura e le eventuali lacerazioni.
Nei mammiferi, compreso l’uomo, lo strato corneo morto della pelle viene eliminato continuamente in scaglie minute, e sostituito dalla crescita e dalla cheratinizzazione delle cellule vive più profonde.
Tale metodo, detto di “eliminazione continua a piccole scaglie”, sembrerebbe utilizzato nei rettili da parte delle tartarughe, con la perdita di zone esterne corneificate del carapace, sotto forma di scaglie, e nei coccodrilli, con perdita irregolare di scaglie cutanee in varie parti del corpo, in regime indipendente, non sincronizzato.
I sauri e i serpenti presentano una modalità differente: questi animali hanno infatti i cosiddetti “periodi di muta”.
Con questo meccanismo, in periodi ben definiti, viene eliminato contemporaneamente tutto lo strato superficiale della pelle (attenzione solo quello superficiale !).
Esiste, evidentemente, in termini evolutivi, un certo parallelismo con la muta di certi uccelli e di certi animali da pelliccia.
Benché i serpenti generalmente eliminino la loro pelle tutta intera, o almeno in tre grandi frammenti, talvolta lo fanno pezzo per pezzo.
È probabile che questo fenomeno sia causato o da cattive condizioni di salute o da una situazione ambientale sfavorevole, come per esempio la mancanza d’umidità. Nei serpenti marini, la muta avviene sia normalmente, sia mediante l’eliminazione di lembi staccati. Due o tre settimane prima della muta, la pelle di un serpente s’intristisce, e i suoi occhi diventano opachi, bluastri, probabilmente a causa di modificazioni della struttura intima ricoprente l’occhio.
L’animale spesso (lo sanno bene i biologi che mantengono serpenti nei terrari-vivai all’interno di giardini zoologici e parchi acquatici) rifiuta il cibo e diventa irritabile, probabilmente a causa del fatto che non ci vede più bene.
Passa sovente molto più tempo nell’acqua, e poiché ci risulta che la permeabilità della pelle aumenta prima della muta, è possibile che in questo modo il serpente imbibisca bene il suo corpo, per ridurne poi il rischio di disseccamento.
Può anche essere che l’acqua serva ad ammorbidire la cheratina.
Qualche giorno prima della muta vera e propria, la membrana che ricopre l’occhio ridiventa
Trasparente, e la pelle assume una tinta quasi normale; si potrebbe supporre che la muta sia già avvenuta, se non fosse che non si trova in giro la spoglia, detta “esuvia” o “exuvia”.
Il serpente è spesso agitato. Gira senza sosta qua e là, sfregando la testa contro gli ostacoli per rompere la pelle nella zona attorno la bocca.
Sia i serpenti che i sauri, hanno un meccanismo fisiologico per facilitare questo processo: il reflusso del sangue venoso dalla testa al cuore, viene infatti ostacolato dalla costrizione delle vene giugulari.
La testa allora si gonfia di sangue, specialmente intorno agli occhi, e favorisce la rottura dello strato corneo morto.
Una volta che la vecchia pelle si è staccata intorno alle mascelle, l’eliminazione della spoglia è di solito molto facile.
Se poi s’impiglia a una pietra o a dei rami, il serpente riesce a disfarsene in fretta, e può succedere che la pelle, si risvolti completamente come un calzino, l’interno diventa cioè esterno e viceversa.
Come detto, naturalmente, il processo interessa solo gli strati più superficiali della pelle; l’esuvia è quindi sottile e fragile, con una struttura completamente diversa da quella della spessa pelle di un serpente, e presenta solo qualche leggera traccia di pigmentazione.
In campagna si trovano qualche volta queste spoglie complete, persino con la membrana che circondava l’occhio, ed è tramite queste che il biologo riesce ad identificare le specie che vivono in quella zona.
La frequenza della muta varia moltissimo, sia da specie a specie, sia tra gli individui di una medesima specie, e perfino per uno stesso esemplare.
La credenza popolare (opera ahimè anche di molti naturalisti e veterinari !) secondo cui i rettili hanno una sola muta annuale in primavera, non corrisponde dunque a realtà. Il biologo zoologo Klauber, durante gli anni ’70 del secolo scorso, dopo aver analizzato i dati di molte osservazioni su campo, ha concluso che in natura i serpenti a sonagli mutano da una a tre volte all’anno, e che la muta è più frequente nelle specie dei climi caldi, rispetto a quelle che vivono più a nord, e che hanno solo 6-8 mesi d’attività annuale.
I serpenti a sonagli, stabulati in terrari-vivai (anche la mia esperienza personale lo conferma), arrivano a mutare fino a sette volte l’anno. E per i pitoni è stata registrata anche una frequenza più alta.
La prima muta si effettua spesso qualche giorno dopo la nascita, ed i biologi hanno osservato che in qualche specie vivipara può avvenire anche all’interno dell’utero materno !
Nonostante si sia scritto molto sulla muta dei serpenti, è solo negli ultimi 30 anni che sono stati compiuti studi più dettagli sulla fisiologia del processo, in particolare sulle modificazioni cellulari che ne sono responsabili.
Da studi approfonditi del 1980, su prelievi di pelle giornalieri ad opera del biologo P.F.A. Maderson, effettuati sul colubro di Hong Kong (Elaphe taeniura) mantenuto nel parco acquatico statale di Singapore, si è osservato che la pelle di un serpente, genericamente parlando, entra in una fase di quiescenza (riposo funzionale), in cui si osserva la struttura semplice, con zona esterna corneificata, provvista di scanalature chiamate “Oberhautchen” (parola tedesca che letteralmente significa: scolpito, il nome è stato mantenuto così, perché queste strutture furono scoperte durante la prima metà del ‘900, dai biologi erpetologi della scuola di Zoologia di Berlino), a lamine cheratinizzate, a cui fa seguito un profondo strato di cellule basali e, intermedio a questi due, uno strato duplice di cellule più o meno appiattite.
I meccanismi che innescano la muta, sono estremamente complicati. Si attivano complessi canali biochimici, ed è necessario che avvenga una modificazione metabolica nell’animale, coinvolgendo anche cellule di stipeti molto diversi, ad esempio anche a natura immunitaria, come i granulociti eosinofili, che dal sangue raggiungono gli strati più esterni della pelle, che esprimono e secernono a loro volta enzimi proteolitici. E sono questi che cominceranno a digerire le proteine dell’epidermide, innescando una fase di sfaldamento del tessuto.
Argomenti avanzati della biologia cellulare e della biochimica, che sono al di fuori della mia preparazione, come dal contesto di questa scheda, ma in termini molto generici è sufficiente la descrizione appena fatta. Gli zoologi hanno dato sempre molto peso e dedicato molti studi ai colori degli animali, come i botanici a quello dei fiori, poiché, in quanto biologi, hanno sin da subito intravisto l’essenza intima che si nasconde dietro una livrea colorata di un animale o la corolla di un fiore, la “comunicazione” tra conspecifici e congeneri e anche tra membri di altre specie e generi.
Il colore della pelle e delle altre membrane appendici, come anche la mucosa di rivestimento della bocca e delle cavità del corpo, dipende in larga misura dalla presenza di particolari cellule contenenti pigmento, dette cromatofori.
Sono localizzate quasi sempre negli strati più esterni del derma, non dell’epidermide, tant’è che le esuvie sono sempre chiare.
Il tipo di cellula più comune è quella che contiene un pigmento bruno scuro, la “melanina”. Tale cellula melanofora, ha diverticoli ramificati, che si proiettano nello strato basale dell’epidermide.
Se la cellula si contrae rilascia poca melanina, se si rilassa espandendosi ne rilascia parecchia.
Questo meccanismo è utilizzato da molti sauri, come i camaleontidi, per variare il colore (più scuro meno scuro) della loro livrea, in corrispondenza a stati emotivi diversi.
Nei serpenti non si hanno queste modificazioni transitorie, a fini mimetici, o di camuffamento, o in relazione allo stato emotivo dell’animale, e i melanofori determinano soltanto il colore scuro del corpo.
La mancanza di melanina è la causa principale del colore bianco o pallidissimo in alcuni serpenti, come si osserva per il bellissimo pitone bianco citato nel libro scritto dal biologo C.H. Pope, “The giant snakes”, del 1958. Negli anni ’70 del XX secolo, in Asia alcuni biologi hanno anche rinvenuto un pitone pezzato, con grandi macchie bianche.
Bisogna non confondere, come spesso accade, i melanofori, cellule che costituiscono uno strato continuo compatto sottoepidermico, con i melanociti, che sono cellule a contenuto sempre melaninico, ma che sono localizzati nell’epidermide stessa e sono quelle che danno quelle rarissime e debolissime pigmentazioni presenti in alcune esuvie, che ogni tanto si osservano, perché trascinate durante la muta.
Però, come abbiamo visto prima nella classificazione dei serpenti, sono numerosissime le specie che hanno tutto il corpo o parti di esso colorate brillantemente.
Questi colori come il rosso, il blue, il giallo, il nero, il marrone e, il rame, ecc., sono opera di cellule a pigmenti, a cui sono stati dati i nomi più svariati, ma che generalmente sono chiamati lipofori (perché il contenuto è a natura lipidica) e allofori: la nomenclatura delle cellule colorate, dette cromociti è complessa e spesso confusa, a tale proposito una utile guida è “Dictionary of Herpetolgy” scritta dal biologo erpetologo J.A. Peters, pubblicata nel 1969, ancora oggi di notevole utilità.
Concludiamo il discorso sulla pelle trattando le strutture e appendici speciali che si ritrovano nei serpenti.
Certi colubridi del genere Natrix, ed altri generi affini, hanno, come accennato prima, sotto le squame, una doppia catena ghiandolare, che talvolta si estende per tutta la lunghezza del corpo. Altri generi, ce l’hanno ai lati della linea medio-dorsale del collo.
La loro funzione non è ancora del tutto chiara, si pensa esprimano un secreto repellente e irritante per le mucose dei predatori (anche un altro ofidio), che sarebbero costretti ad abbandonare la presa.
E molti serpenti maschi, prima dell’accoppiamento, strofinano il mento sul collo e sul dorso della femmina, probabilmente come meccanismo di corteggiamento mediato da feromoni rilasciati da queste ghiandole. Alcuni viperidi, come la Ceraste cornuta del Sahara (Cerastes cerastes ), la vipera Bitis cornuta e il Crotalo ceraste (Crotalus cerastes) del Nordamerica, hanno sotto ciascun occhio, un tubercolo appuntito, simile a un corno, formato da una squama ingrandita.
La grande vipera del Gabon (Bitis gabonica) e la Vipera nasicorne (Bitis nasicornis) hanno di solito un muso ornato da un paio di tubercoli in rilievo, ma talvolta queste appendici sono appena visibili.
Alcuni serpenti arboricoli hanno il muso che termina con una lunga punta.
Nei colubridi del genere Langaha del Madagascar, questa appendice è assai curiosa, e diversa nei due sessi. Ad esempio nel maschio del Langaha allaudi è a forma di corno allungato sporgente, dinanzi le narici e all’estremità delle mascelle, mentre nella femmina la struttura è molto più complessa, assumendo la forma di una foglia dai bordi dentellati-frangiati.
Non si sa quale sia la funzione di queste appendici, forse servono a mimetizzare meglio gli animali nel folto della vegetazione tropicale.
Citiamo un ultimo caso che rappresenta un esempio unico: il muso di uno strano serpente acquatico indocinese, l’Erpeton tentaculatum, che presenta due lunghi tentacoli ornamentali, costituiti da connettivo dermico e ricoperti di squame, dotati di mobilità, ma sembra privi di sensibilità. Quando il serpente è completamente immerso nell’acqua di un fiume o in mare, sporgono diritti in avanti, per portarsi indietro quando la testa esce dall’acqua. Secondo alcuni biologi, in acqua simulerebbero piccoli ramoscelli o alghe galleggianti, utili per camuffarsi e avvicinarsi a una preda facilmente, o per difendersi, mediante camuffamento, da caimani, gaviali e alcuni pesci marini carnivori.
Come accennato, i serpenti hanno avuto evolutivamente una regressione totale del cinto pelvico e scapolare, in quanto privi di arti. Ma nei Boidae possono osservarsi a livello ventrale, in corrispondenza di quella che sarebbe la struttura sacro-lombare di un vertebrato tetrapode (cinto pelvico), abbozzi vestigiali pari, di piccole protuberanze ossee, come traccia evolutiva di arti ormai completamente atrofizzati. In ultimo, senza ombra di dubbio, l’appendice più originale che si ritrova nello splendido mondo dei serpenti è il “sonaglio” dei serpenti a sonagli (Crotalinae).
Si tratta in sostanza di un certo numero di segmenti cornei, incastrati gli uni negli altri, che si trovano al posto della squama conica caudale, presente in tutti i serpenti privi di sonaglio. Ogni segmento, è di solito trilobato, la disposizione dei segmenti è tale che i due lobi posteriori di uno s’incastrano all’interno dei due lobi anteriori del successivo, ad eccezione dell’ultimo segmento che ovviamente è libero e perciò visibile in ogni sua parte. Il suono viene provocato da sassolini che vengono intrappolati durante la sua formazione, nello sviluppo dell’animale.
Sistema nervoso e psicologia dei serpenti
Il cervello dei rettili è piuttosto piccolo se paragonato a quello dei mammiferi. Spesso non è molto più grande, e certe volte persino più piccolo, del cervello di un anfibio e di un pesce, che abbiano
un volume cranico simile.
Tuttavia, quando si confrontano i volumi cerebrali, bisogna tener presente che le specie animali di grande taglia, tendono ad avere un cervello che, rispetto al volume del corpo, è relativamente più piccolo di quello delle specie di piccola taglia. È importante non trascurare questo aspetto dell’indice di encefalizzazione, quando si confronta la mole del cervello di animali che appartengono a classi di vertebrati diverse.
Il cervello umano, uno tra i più grandi in valore assoluto fra i mammiferi, è circa 1/45 (il 2,2%) del peso del corpo, mentre il minuscolo cervello di un toporagno, equivale approssimativamente a 1/23 (il 4,3%) del peso dell’intero animale; il suo “peso relativo” è quindi circa il doppio che nell’uomo, quello che cambia a favore degli esseri umani, senza dubbio, è il peso assoluto.
Per tale motivo, non deve stupire che i cervelli dei dinosauri fossero così piccoli, rispetto alle gigantesche taglie corporee, sebbene in valore assoluto possono essere stati anche più grandi dei cervelli dei rettili attuali. Il cervello della maggior parte dei rettili non riempie mai completamente la scatola cranica, dalle cui pareti è separato per mezzo della “dura madre”, la robusta membrana esterna che l’avvolge. E questo, avendo solo a disposizione il cranio, rende difficile il lavoro dei biologi paleontologi che vogliono ricostruire i cervelli fossili.
Ad esempio, nel dinosauro Tyrannosaurus rex, l’impronta endocranica è lunga 20 cm e non supera i 5 cm di larghezza. Ovviamente la misura effettiva del volume del cervello può essere parecchio inferiore, ma per questa via si ottiene almeno una indicazione, sebbene approssimativa, delle possibili dimensioni assolute.
Il cervello dei rettili, e quindi dei serpenti, come avviene in generale per tutti i vertebrati, è suddiviso in tre parti principali: anteriore, mediana e posteriore, da dove si dipartono una o più delle dodici (talvolta solamente undici) paia di nervi cranici.
La superficie degli emisferi è generalmente liscia, anche se talvolta, possono esservi una o due rugosità appena abbozzate.
Quindi mancano le tipiche circonvoluzioni profonde, presenti principalmente nell’essere umano, nei primati non umani e nelle grandi scimmie antropomorfe, come anche nei delfinidi.
La maggior parte del cervello anteriore, si compone di due masse rigonfie simmetriche, gli emisferi cerebrali, che contengono delle cavità chiamate ventricoli laterali.
La parte rostrale (anteriore) di ciascun emisfero si restringe in un corto stelo, che poi si rigonfia a formare il bulbo olfattivo, organo pari. Questi bulbi sono comunque situati proprio dietro al naso del serpente, e le fibre dei nervi olfattivi si dirigono nelle fossette nasali. In alcune specie di serpenti esiste un ulteriore tipo di rigonfiamento, il bulbo olfattivo accessorio, che è posto dietro l’organo principale a cui affluiscono le fibre del “nervo vomero nasale”, provenienti dall’organo di Jacobson. Nei Boidae è presente questo bulbo olfattivo aggiuntivo, che si somma ai due già presenti. Una struttura simile la si ritrova anche in altri rettili, vedi Sauria e Chelonia.
Come è ormai ben noto, nell’essere umano e nelle grandi antropomorfe, come nei primati non umani e nei delfinidi, tutti i processi sensoriali cognitivo-emotivi vengono relazionati e integrati a livello della corteccia cerebrale, detta “Neocortex” nell’essere umano, o generalmente “sostanza grigia”. Molte fibre sensoriali arrivano a questa struttura, e molte fibre motrici da essa partono, per andare a innervare i muscoli striati scheletrici degli arti e del tronco.
Le sopracitate circonvoluzioni e lo spessore (di pochi decimi di mm) della corteccia cerebrale, variano tra le specie prima indicate, dove per quanto riguarda lo spessore della corteccia, assumono valori massimali nell’essere umano, rappresentando le chiavi di volta per uno sviluppo psichico e una psicologia più raffinata, ovvero ciò che evolutivamente ha permesso di creare quelle facoltà dette “superiori”, come l’apprendimento, la memoria, fino ad arrivare nella specie umana, alle capacità verbali-astrattive.
In realtà il cervello dei rettili, nello specifico degli ofidi, o meglio gli emisferi che lo compongono, sono soprattutto in rapporto con l’odorato, come avviene nella maggior parte dei vertebrati cosiddetti inferiori, definizione che non amo molto. Una piccola zona, sulla superficie superiore di ogni emisfero, viene spesso considerata omologa della corteccia cerebrale; ma si tratta, di una semplice ipotesi proposta dai biologi zoologi, non ancora suffragata dai neurobiologi comparati.
In termini di psicologia comparata nei serpenti, l’asportazione sperimentale di questa zona (anche per i sauri) sembra avere scarso effetto sul loro comportamento, e non pare che vengano soppressi i riflessi condizionati, appresi in precedenza e riguardanti l’associazione dei colori o di forme geometriche all’offerta di cibo.
In realtà questo campo dovrebbe essere investigato da altri tipi di biologi (i neurobiologi comparati), poiché il loro approccio, mediante per esempio la stimolazione elettro-chirurgica di queste aree, risulterebbe più efficiente di quello applicato da noi biologi zoologi, più basato sull’osservazione in natura o eventualmente in un giardino zoologico, utilizzando metodi non invasivi, che però risultano solo in grado di dare risposte qualitative e non quantitative al problema.
Studi scientifici sulla psicologia comparata nei serpenti, mediante test psicometrici, sono ancora pochissimi in letteratura. Generalmente un neurobiologo comparato usa tartarughe terrestri per i suoi studi, per cui rimangono solo i dati ottenuti da studi etologici, mediante osservazione in natura o in ambiente controllato.
Quindi spiegare fenomeni, come quello dei fachiri (personaggi che ritengo almeno ambigui) che pretenderebbero di incantare serpenti anche pericolosi, come cobra reali asiatici, mediante la melodia musicale, non ha ancora nessuna prova a sostegno, e quindi rimangono, sebbene affascinanti, fenomeni confinati nell’ambito dell’etnologia folkloristica. E va aggiunto che questi signori utilizzano sempre animali drogati o mutilati dei loro denti veleniferi, per renderli innocui.
Recenti studi neuroanatomici, effettuati su sauri e serpenti, hanno mostrato che i condotti degli organi di Jacobson si trovano in corrispondenza della punta della lingua, ed i neurobiologi ci dicono che potrebbero avere un ruolo cardine in alcuni comportamenti di questi animali.
Lo Jacobson è un organo pari (cioè in duplice copia) nei serpenti come nei sauri, ed è di forma sferica e di grandi dimensioni (rispetto agli emisferi cerebrali), contenuto in un involucro cartilagineo.
Anche nei serpenti marini presenta dimensioni notevoli, come nella maggior parte dei sauri, mentre in certi Agamidi (Agamidae) e in certi Iguanidi (Iguanidae), come gli Anolis, ha dimensioni ridotte oppure è assente, mentre in altre specie, come nei Camaleontidae, presenta una struttura rudimentale.
In realtà, per quanto riguarda i serpenti arboricoli specializzati, il naso, per quanto ne so, non è mai stato studiato, e sarebbe interessante farlo per vedere se si hanno coincidenze funzionali con gli altri serpenti.
Inoltre, nei serpenti come nei sauri, l’organo di Jacobson è connesso con determinate aree cerebrali del “cervello medio”, e questo spiegherebbe come mai un serpente o un varano (come esempio dei sauri) tende ad estroflettere continuamente la lingua, muovendola nel vuoto, probabilmente per saggiare l’aria.
Cosa vuol dire? In uno splendido documentario degli anni ’70 del secolo scorso, girato in India e sulle Isole Comodo con la supervisione del grande biologo erpetologo Angus Bellairs di Londra, si osservò che pitoni e varani in presenza di carcasse di animali morti, nascosti da questi scienziati in prossimità delle loro tane, si destavano improvvisamente dalla loro calma apparente.
Cominciavano a muovere velocemente la lingua bifida, estroflettendola, per individuare la direzione di tale odore, e si spostavono subito, uscendo dalle loro tane a piedi o strisciando. Questo ha fatto ipotizzare ai biologi zoologi del gruppo, autori del documentario, che tali animali, assaggiando l’aria, raccolgano mediante la lingua particelle d’odore, che tramite i condotti sopra citati vengono veicolate all’organo di Jacobson, che tramite il vomero nasale le proietta nella corteccia olfattiva (entorinale), dove poi verranno probabilmente convertite (tramite scariche d’impulsi elettrici di specifica forma) in una sorta d’immagine dell’odore, per mezzo della quale sia il varano che il pitone, possono rintracciarne la fonte, cioè le carcasse nascoste.
Orecchio e Occhio
Abbiamo prima discusso dell’olfatto e dell’organo chimico che permette la descrizione e discriminazione degli odori, l’organo di Jacobson.
Per quanto riguarda altri organi di senso, come l’orecchio e l’occhio, possiamo dire che per il primo è difficile stabilire con esattezza fino a che punto i serpenti siano in grado di “udire”.
L’assenza di timpano e l’anatomia dell’orecchio medio dei serpenti e dei sauri scavatori, non indicano certamente una grande sensibilità ai suoni trasmessi attraverso l’aria, anche se il canale cocleare e la papilla basilare dell’orecchio interno non sono affatto degenerati.
Questi animali, non hanno mai mostrato negli esperimenti compiuti a questo scopo, evidenti reazioni ai suoni provenienti dall’aria, per questo motivo i biologi zoologi sono molto scettici riguardo ai racconti di serpenti affascinati o attirati fuori dalle tane con la musica.
Tuttavia i neurobiologi comparati Wever e Vernon, hanno dimostrato che l’orecchio medio di diversi colubri (generi Pituophis, Thamnophis e Natrix) risponde elettricamente ai suoni aerei di tenue intensità con frequenze comprese tra i 100 e 500 cicli/secondo. Il problema è complesso e tutto da risolvere.
Per quanto riguarda l’occhio dei serpenti, queste pagine basterebbero appena ad elencarne la complessità.
I biologi zoologi Garth Underwood e Wells hanno compiuto studi evolutivi sugli occhi dei serpenti per circa 50 anni (a partire dagli anni ‘ 30, fino agli anni ’80 del secolo scorso), e sono stati probabilmente i massimi esperti al mondo.
Secondo tali autori, gli Ophidia, intesi come gruppo, deriverebbero da progenitori a vita ipogea, in cui gli occhi avevano raggiunto uno stadio avanzato di degenerazione.
Tornando alla vita epigea, pensiamo ai primitivi serpenti scavatori del genere Leptotyphlops e Typhlops, si sono avuti processi di recupero, che hanno permesso di organizzare in termini evolutivi l’occhio, in modo da poter garantire la vita nell’ambiente subaereo, sia per specie a vita notturna che per quelle diurne, arboricole, terricole o acquatiche.
Della vita ipogea, l’unica struttura presente ancora oggi nei serpenti come vestigia ancestrale, sono gli “occhiali”, carattere tipico dei serpenti che menavano vita in quell’ambiente e quindi traccia di una possibile origine “troglobiotica”.
L’adattamento e l’accomodamento dell’occhio nei serpenti attuali, ha assunto la tecnica simile a quella della macchina fotografica, utilizzata anche dai selaci-elasmobranchi (squali, pescecani), che fa uso dell’iride come forza motrice.
Le piccole lenti gialle ed i caratteristici doppi coni dei serpenti diurni, rappresentano forme ottiche evolute degli attuali serpenti; infine, bisogna ricordare che la presenza di morfologie diverse della pupilla (a fessura, rotonda e a buco di serratura), identificano la preferenza di vita diurna o notturna.
I serpenti a vita prevalentemente diurna posseggono una pupilla a fessura (linea orizzontale o verticale), e quelli a vita notturna una pupilla rotonda.
Inoltre la presenza di solchi lungo il muso, come nei serpenti arboricoli del genere Ahaetulla (da alcuni autori chiamato Dryophis), permettono una visione binoculare.
Le fossette termiche nasali e labiali, sono infine un altro mezzo di “visione” dei serpenti. Sono presenti solo nei Crotalinae e nei Boidae, mentre le vipere non ne sono provviste.
Nei crotalini, sono poste come una depressione tra l’occhio e la narice del naso (una ciascun lato del muso) nei boa, sono a livello labiale. Tali strutture, permettono di percepire il calore trasportato dal sangue negli organismi viventi.
È ben noto, mediante le tecniche ottiche dell’infrarosso, utilizzate dagli umani, che un corpo caldo ha una colorazione diversa “rossa”, rispetto a uno freddo, che generalmente è di colore blu. L’emissione di calore, in quanto forma di energia, ha una sua frequenza elettromagnetica ben precisa, percepibile in assenza di luce. E quindi, soprattutto di notte, tali strutture permettono a questi serpenti di cacciare ed evitare i predatori.
Sesso e riproduzione
L’istinto sessuale è straordinariamente ricco di fantasia e talvolta tragico nel mondo animale. Infatti, nonostante si sia evoluto a tutto vantaggio della specie, può risultare fatale per il singolo individuo. Quando è al suo apice prende il sopravvento su quasi tutte le altre manifestazioni vitali e del comportamento; ne è un esempio impressionante la vita della Testuggine franca (Chelonia mydas), che abbandona habitat ricchi di cibo, compiendo lunghi viaggi di migliaia di chilometri, per andare ad accoppiarsi e deporre le uova su spiagge lontane, dove spesso si ritrova in balia della fame e di pericoli imprevedibili.
Il primo atto della riproduzione sessuale è rappresentato dalla ricerca di un partner adatto. Per noi umani, il riconoscimento dei sessi non è un problema, ma ci possiamo chiedere in che modo riescano a ottenere questa informazione gli animali, che sono privi di caratteri sessuali marcati. Molti animali risolvono senza dubbio il problema reagendo istintivamente a minime differenze di tipo somatico: di odore, colore e di comportamento, ma spesso ci sono a facilitare le cose (attraverso l’affermarsi e il magnificarsi delle loro strutture) dei caratteri sessuali secondari.
Il biologo francese Jean B.C. Lamarck e l’inglese Carlo Darwin (anche se più noto, è bene ricordare che quest’ultimo è nato cento anni dopo il francese, e ha tratto molti spunti dalle sue opere) furono tra i primi a porsi questa domanda: il biologo transalpino con la magnificente opera “Philosophie Zoologique” del XVIII secolo, dove per la prima volta si passa da una teoria fissista della specie (proposta dal Buffon) ad una trasformista-adattativa, quindi ipotizzando per primo (non Darwin) il concetto di “evoluzione”, mentre il biologo britannico, nella seconda metà del XIX secolo, uscì con l’opera “The descent of Man, and Selection in Relation to Sex”.
Ma i massimi studiosi del mondo degli ofidi, i primi a compiere seri studi sulla biologia riproduttiva negli anni ’50-’60 del XX secolo, furono i biologi C.M. Bogert e V.D Roth, rispettivamente direttore del museo di storia e del “dipartimento rettili” del giardino zoologico di New York.
L’esistenza di un vero e proprio territorialismo nei serpenti, non è del tutto ancora stata dimostrata, ma si sa che in alcune specie gli individui si aggirano regolarmente in una certa area, dove vivono per lunghi periodi. Inoltre i maschi di molte specie, come i serpenti a sonagli, gli ancistrodonti, le vipere, i mamba e molti colubridi, intraprendono lotte ritualizzate senza procurarsi reciprocamente danni: attorcigliando i loro corpi in maniera caratteristica, talvolta si raddrizzano e si danno poderose spinte, fino a che uno dei due accetta la sconfitta e se ne fugge via.
I maschi del bel colubro di Esculapio dell’Europa meridionale (Elaphe longissima), assumono una posizione a forma di lira, che è quella che probabilmente ha ispirato la forma del Caduceo di Hermes o Mercurio. Sia questa, che l’insegna di Esculapio (un serpente avvolto intorno a un bastone), sono divenuti poi il simbolo della professione medica, pur non avendo tale professione alcun rapporto con la zoologia.
Va aggiunto che spesso, questa lotta tra due maschi di Esculapio, fu interpretata come una forma di corteggiamento, una sorta di danza nuziale tra un maschio e una femmina; e viceversa, una fase d’accoppiamento tra maschio e femmina, come la lotta tra due maschi conspecifici. I maschi e le femmine di questa specie non mostrano infatti caratteri somatici evidenti di dimorfismo sessuale, e non è semplice distinguerli.
Effettivamente, per alcune specie, vi è una certa somiglianza tra certe fasi del corteggiamento e una lotta, come nel caso per esempio del Cobra reale (Ophiophagus hannah), dove l’innalzamento della testa tra il maschio e la femmina, mostrano delle similitudini con un’eventuale tenzone.
Anche le vipere, come la Vipera latasti e la Vipera berus, presentano queste somiglianze.
Nelle regioni temperate, e soprattutto nelle zone fredde dove vivono i serpenti del genere Thamnophis e certe specie di vipere e di serpenti a sonagli, gli animali svernano di solito insieme in profonde tane comuni, e quando escono, a primavera, non fanno certo fatica a trovarsi un partner. Talvolta si raggruppano e si accoppiano insieme, e questo fatto ha dato origine alla leggenda sui “nodi di serpenti”, di cui a volte si sente raccontare ancora oggi nelle campagne.
Questi accoppiamenti gregari sono invece rari nelle specie tropicali, che non hanno il letargo
invernale.
Le parate nuziali dei serpenti, furono descritte minuziosamente in un articolo degli anni ’60 del secolo scorso, dal biologo zoologo G.K. Noble, uno dei pionieri dell’erpetologia sperimentale. Di solito, prima dell’accoppiamento, il maschio segue la femmina strofinandogli la testa e il collo contro il suo corpo e tirando dentro e fuori la lingua. Questo comportamento è stato osservato tra l’altro nel cobra reale, dove il maschio sfrega con tutta evidenza il suo naso sul cappuccio disteso della femmina.
L’attorcigliamento delle code, fa pure parte del corteggiamento: il maschio si serve infatti della sua coda per sollevare quella della femmina, in modo che le due regioni cloacali possano entrare in contatto.
Successivamente il corpo del maschio viene percorso da ondulazioni che attraversano tutto il corpo, andando dalla testa alla coda, e possono durare fino a dieci minuti. Secondo alcuni biologi zoologi, queste precedono la copula, piuttosto che l’eiaculazione vera e propria.
Nei serpenti a sonagli il corpo del maschio è scosso da bruschi sussulti e non da ondulazioni; i boa e i pitoni maschi, invece, si servono della membra posteriori rudimentali-vestigiali, per grattare i fianchi della femmina, producendo così un rumore roco, che è percepibile fino a 1 m di distanza.
Questo stimolo indurrebbe la femmina ad assumere una posizione tale, che il maschio può far scivolare la coda sotto quella della compagna e compenetrarla col suo emipene.
Nella Coronella austriaca (Coronella austriaca), come in poche altre specie, il maschio afferra con la mascella la testa della femmina, come accade anche in molti sauri.
La copula può durare anche un’ora o più.
Talvolta in cattività (giardini zoologici e parchi acquatici), sono stati osservati tentativi di accoppiamenti omosessuali, indici di comportamenti aberranti, dovuti probabilmente ad alterazioni del titolo ematico degli ormoni sessuali, probabilmente eventi casuali indotti dallo stress e comunque rari in natura.
La consistenza delle uova (che possono avere forma ovale, ellissoidale e generalmente sono di colorazione bianco pallido o bianco-beige nelle varie specie di serpenti) è di tipo pergamenaceo.
Non si sono osservate, tranne che nei pitonini, cure parentali tra madri e serpenti neonati, nelle varie specie, come assenza di cova. Nelle specie vivipare, può capitare che una madre morta (ad esempio nelle vipere) possieda, osservandola sezionata, dei grossi feti in sviluppo all’interno degli uteri. Questo, in passato, fece nascere la leggenda secondo cui tali serpenti ingoierebbero i propri piccoli per proteggerli fino allo sviluppo completo, che in realtà avviene all’esterno, una volta partoriti.
Diamo un breve sguardo ora alla natura dei cromosomi nei rettili, ed al cariotipo dei serpenti. Ricordando che i rettili, e quindi i serpenti, sono organismi gonocorici (a sessi separati), tranne qualche caso di ermafroditismo osservabile in una famiglia di sauri, gli Scincidi (Scincidae), ed a riproduzione amfimittica o anfigonica (mediante fusione di una sperma con una ovocellula), quindi in sostanza organismi singamici, hanno quindi cariotipo diploide= 2N (diploidia totale).
E alcune lucertole, come quelle delle Muraglie caucasiche (Lacerta saxicola), sono a riproduzione unisessuata-partenogenetica: l’ovocellula per attivarsi ad embrione, non necessita dello spermatozoo che la fecondi, ma i suoi due nucleoli, percependo adeguati stimoli a natura biologica, fisica o chimica, si fondono ristabilendo la diploidia 2N.
Questi ceppi “partenogenetici”, sembra che si generino in aree geografiche dal clima instabile e difficile, come appunto fu il Caucaso durante le glaciazioni del Pleistocene (Quaternario).
In quel periodo, e in quelle condizione ambientali, probabilmente la “selezione naturale” ha favorito una riproduzione unisessuata.
Forse perché le femmine partenogenetiche depongono in genere più uova di quelle singamiche, e perché hanno un periodo d’incubazione più breve; per questo sono infatti dette “subitanee”, distinguendole dalle “durature”, cioè quelle prodotte per anfigonia, dove l’incubazione è più lunga. E ciò evidentemente permise una maggiore possibilità di sopravvivenza in quelle aree geografiche così difficili.
I cromosomi rettiliani sono di misura variabile: ve ne sono di grandi (macrocromosomi), di piccoli (microcromosomi) e di intermedi. Osservati al microscopio, possono avere la forma di una “J”, o di un “V” (cromosomi metacentrici), o essere simili a bastoncelli di varie dimensioni “I, i” (cromosomi “acrocentrici”). Nel corso dell’evoluzione è possibile che, con l’originarsi di una nuova specie, la formula del cariotipo possa aver subito alterazioni, ad esempio per la fusione di due cromosomi a bastoncelli (acrocentrici) che hanno portato alla formazione di un cromosoma metacentrico a V.
Da qui, è possibile stabilire un “numero fondamentale: NF “ di cromosomi, dando a ciascun tipo di cromosoma un valore numerico specifico, ad esempio: per il cromosoma “V” il valore è 2 (cioè, 1 per ciascuno ramo laterale della V) ed il valore di 1 per ogni cromosoma a bastoncello “I, i” o per ogni cromosoma puntiforme indicato con “m”, tipico dei serpenti.
Da questa classificazione dei cromosomi, il biologo erpetologo R.Matthey, che ha compiuto studi approfonditi sui cariotipi e sulla citogenetica dei Lepidosauria, sottoclasse a cui afferisce il sottordine degli Ophidia, stabilì che i serpenti sono un gruppo più omogeneo di quello dei Sauria, per quanto riguarda la struttura e la natura del cariotipo.
Studiando varie specie di serpenti, afferenti a numerosi generi, compreso il primitivo serpente ipogeo Leptotyphlops phillipsi, notò che la maggior parte aveva un cariotipo pressoché identico, dalla formula 2N=36, cioè 2N=10 V + 6 I + 20 m, da cui, ricordando che a V si assegna valore 2, mentre a I e m valore 1, si ottile il numero fondamentale NF=46.
Questa è considerata dai biologi erpetologi la “formula base”, dei membri afferenti al sottordine degli Ophidia.
Il colubro Clelia occipitomaculata, ha il numero più alto di cromosomi che si conosca, non solo tra gli ofidi, ma tra tutti i rettili, con formula 2N=50; di cui 14 sono macrocromosomi e 36 microcromosomi. Come è ben noto in Biologia, nei vertebrati superiori (uccelli e mammiferi), il sesso è determinato da eterocromosomi (cromosomi sessuali).
Nello specifico (vedi i Psittaciformes), nei mammiferi sono il cromosoma X= cromosoma femminile e Y= cromosoma maschile, negli uccelli W e Z, da cui l’eterogametia o eterogamia nei mammiferi è quella maschile “XY”, cioè il maschio è eterozigote per il sesso, l’omogametia o omogamia è quella femminile “XX”, cioè la femmina è omozigote per il sesso, con una doppia dose del cromosoma sessuale X, di cui uno è condensato o inattivo, formante il cosiddetto corpuscolo di Barr, ipercromico (più denso, se osservato al microscopio).
Quindi nei mammiferi è il maschio a determinare il sesso: nei mammiferi le ovocellule sono dotate solo del cromosoma femminile X, mentre dai maschi vengono prodotti spermatozoi sia X, che Y, ricordando che le cellule germinali (spermatozoi e ovocellule), sono aploidi N, per cui possono portare un solo cromosoma sessuale.
Negli uccelli il discorso s’inverte: l’eterogamia (WZ) è tipica del sesso femminile, quindi la femmina è eterozigote per il sesso, mentre l’omogamia è maschile (ZZ) cioè omozigote per il sesso. È quindi la femmina a determinare il sesso con ovocellule dotate o del cromosoma W o Z, mentre gli spermi degli uccelli maschi sono sempre omozigotici Z. Lo stadio WW è incompatibile con la vita.
Situazioni analoghe agli uccelli si hanno per i lepidotteri e diverse specie di coleotteri, mentre negli ortotteri come vedremo nell’apposita scheda, le cose sono ancora un po’ diverse.
In molte specie di colubridi, come di viperidi, il discorso è equivalente agli uccelli.
Però diverse specie appartenenti ai Boidae, come in membri della sottoclasse degli Archosauria (ordine Crocodilia, sottordine Eusuchia, famiglia Crocodylidae), o quelli afferenti all’ordine dei Chelonia e del sottordine dei Sauria, non è stato possibile mettere in luce differenze cromosomiche tra i due sessi.
Probabilmente, dal punto di vista biologico, in molte specie di serpenti come di sauri, di coccodrilli e di cheloni, la determinazione del sesso, dipende come per molti pesci, da specifici geni singoli e non da cromosomi completi (questi concetti e studi, sono comunque molto complessi e i biologi molecolari come i genetisti, li portano avanti da anni).
Recenti ricerche sembrerebbero però indicare che, almeno in certi sauri, il maschio è eterozigote come nei mammiferi.
Apparato velenifero
Come descritto sopra, la struttura osservata nelle specie come la Natrice dal collare (Natrix natrix), in cui nessuno dei denti è specializzato alla conduzione del veleno è detta “aglifa”. Ricordiamo che tale classificazione, sebbene in disuso, è utile per capire quali generi di serpenti sono velenosi e quali no, inoltre ci dà un’idea della meccanica del morso.
La struttura aglifa, la si riscontra in molti colubridi, come in tutti i membri delle famiglie primitive appartenenti agli infraordini degli Enofidi (Henophidia) e degli Scolecofidi (Scolecophidia).
Nella maggior parte degli aglifi la misura dei denti mascellari è poco variabile. In molti colubri, però, le parti posteriori della ghiandola labiale superiore, possono essere circondate da una capsula propria.
Quando la distinzione diviene così marcata, si attribuisce a tale regione il nome di “ghiandola Parotide” (ricordiamo, che non ha a che fare con le parotidi dei mammiferi), detta anche “ghiandola del Duvernoy”, dal nome del biologo che nel 1832 la individuò.
In alcuni colubri, il secreto di tale ghiandola è tossico e questa ghiandola è associata spesso, ma non sempre, a uno o due dente/i di dimensioni maggiori, rispetto gli altri.
In realtà la maggior parte dei colubri aglifi non sono velenosi; e quando lo sono, come la natrice dal collare è nei confronti di anfibi e sauri di cui si nutre, non sono pericolosi per l’uomo.
Quando la ghiandola del Duvernoy è associata a denti posti in posizione posteriore in ciascun mascellare, i serpenti sono detti “opistoglifi”. Tali denti presentano un solco o doccia scanalata, che li percorre collegandoli alla riserva di veleno.
Gli opistoglifi veleniferi, come visto, rappresentano circa un terzo della famiglia dei colubridi, tra questi troviamo il Serpente acquatico (Homalopsis buccata), il Serpente volante delle regioni orientali (Chrysopela ornata) e il Boomslang (Dispholidus typus), un colubride africano che può essere mortale per l’uomo.
Ad eccezione del boomslang, tuttavia i serpenti velenosi opistoglifi non secernono un veleno né così tossico, né la loro meccanica di morso è così efficiente da portare alla morte un essere umano, ma solo varie specie di rettili, anfibi, piccoli mammiferi, e uccelli.
Comunque, quando mordono, causano un dolore non indifferente.
Negli Elapidi (Elapidae), come i cobra, i bungari e i loro parenti idrofidi, cioè i serpenti marini (Hidrophiidae), la situazione è diversa: la ghiandola velenifera è completamente separata dalle ghiandole labiali superiori e si trova dietro l’occhio. È in genere molto grande e in alcune specie, come nel Serpente corallo (genere Maticora), si estende diffusamente per il tronco, per circa un quarto della sua lunghezza.
Un muscolo attaccato alla capsula ghiandolare, l’ “adductor mandibulae superficialis”, contraendosi all’atto del morso, aiuta a spremere e inoculare il veleno.
Negli elapidi e negli idrofidi questi denti veleniferi, sono situati in posizione anteriore nel mascellare e sono definiti “proteroglifi”. Nei cobra i margini dei solchi di tali denti di conduzione del veleno si fondono a formare un canale vero e proprio, che facilità l’emissione e l’immissione del tossico: efficienza quindi non solo del veleno, ma anche del morso velenifero.
In ultimo i Viperidi, le vipere (Viperidae), hanno una struttura simile a quella degli elapidi, ma i denti sono sempre completamente canalizzati, come l’ago ipodermico di una siringa, e inoltre c’è un’aggiuntiva ghiandola accessoria, probabilmente a natura velenifera o di potenziamento.
Tali serpenti, che presentano l’apparato velenifero più efficiente nel mondo degli “ofidi”, vengono detti “solenoglifi”.
I serpenti sputatori, che vantano alcuni cobra come l’Hemachatus haemachatus africano e il Cobra dal collare nero (Naja nigricollis), hanno sviluppato adattamenti ecofisiologici per cui possono spruzzare gocce di veleno a breve o lunga distanza.
Queste penetrando all’interno dell’occhio, ad esempio di un piccolo mammifero, possono renderlo cieco, e il serpente ne approfitta per ingoiarlo (i rettili non masticano).
Ben lo sanno i biologi che allevano tali animali all’interno di terrari nel contesto di giardini zoologici e parchi acquatici. Quando sono disturbati, possono spruzzare questo veleno sui vetri del terrario, e senza protezione avrebbero potuto accecare anche l’uomo.
Natura del veleno degli ofidi
Il veleno dei serpenti (ofidi) ha una struttura molto complessa dal punto di vista biochimico, contiene molti enzimi, come la proteasi, la colinesterasi, la ribonucleasi e la ialuronidasi, oltre a sostanze proteiche non enzimatiche.
Agendo da sole o in combinazione, queste sostanze ottengono effetti devastatori quando sono introdotte nei tessuti di altri animali e trasportate dall’apparato circolatorio e dal sistema linfatico. Alcune proteine non enzimatiche, come la “crotamina”, ricavata dal veleno dei crotali tropicali, sono probabilmente tra le sostanze responsabili dei danni più gravi, tra cui la morte.
L’immunità al proprio veleno, da parte del serpente, nasce dalla sua capacità d’elaborare sostanze (sia a natura immunitaria: anticorpi, che antagonista) antidotiche, in grado di neutralizzarlo.
Questa autoimmunità si conclama solo qualche tempo dopo la nascita quando il serpente matura la sua ghiandola velenifera, e possono quindi essere la causa d’incidenti mortali, quando specie conspecifiche adulte mordono i neonati, e razze diverse della medesima specie o provenienti da aree geografiche diverse.
In ragione della natura biochimica del veleno che esprime, ogni genere o specie di serpente, mordendo, induce nella preda e nell’uomo effetti di natura diversa, che possono essere così elencati:
-Effetti neurotossici sul cervello, sul midollo spinale, sulle terminazioni nervose, ecc., veleno neurotossico.
-Effetti sul cuore e polmoni (infarto, blocco respiratorio), veleno cardio-pneumotossico.
-Alterazione dei vasi sanguigni determinante emorragie, veleno vasotossico.
-Coagulazione del sangue (questo e il precedente effetto, antagonisti, possono essere presenti anche nel veleno del medesimo serpente, complicandone il quadro clinico), veleno emotossico.
-Emolisi (distruzione dei globuli rossi), veleno emotossico.
-Alterazione generale dei tessuti (necrosi e gangrena), veleno citotossico. Probabilmente, nell’ultimo caso, la citotossicità è opera di un agente la “ialuronidasi” un enzima che induce distruzione intercellulare dei tessuti animali.
A complicare il quadro (avvantaggiandone la tossicità) di avvelenamento, ci sono sostanze che l’animale e l’umano morsi, rilasciano per reazione cellulare e tessutale, come la bradichinina e l’istamina, che contribuiscono alla perdita degli equilibri fisiologici dell’organismo.
Trattamento terapeutico da morso di serpente
Solo un biologo erpetologo professionista, con profonda esperienza sul campo, è in grado di stabilire se è avvenuto un morso e l’inoculazione del veleno, e dalla morfologia della ferita, dire quale tipo di serpente lo ha somministrato, praticando le prime forme di pronto soccorso e indicando quale siero antiofidico bisogna somministrare.
Stabilire se o meno il morso e quindi l’inoculamento del tossico sia avvenuto è essenziale, poiché somministrare un siero antiofidico, in assenza del veleno da contrastare, potrebbe provocare reazione allergiche pericolose quanto il veleno stesso, portando, come si è verificato in passato, alla morte il malcapitato che lo riceve.
Per tali ragioni la persona soggetta a un morso deve essere immediatamente portata a un pronto soccorso (si gioca con la vita e la morte), poiché solo un biologo o un medico possono intervenire.
I non addetti, anche se appassionati di serpenti ma privi delle conoscenze tecniche, devono evitare trattamenti che potrebbero solo peggiorare il quadro clinico.
Le conoscenze e le tecniche d’intervento attuali, non sono poi così evolute dagli anni ‘ 60 del secolo scorso. E questo per un generale disinteresse, da parte dei medici, degli studi fatti dai biologi (zoologi, erpetologi).
Diciamo però che molti sieri antiofidici (antiviperidi, antielapidi: cobra e bungari, ecc,…) sono disponibili in centri appositi.
Istituti come il Butantan di San Paolo-Brasile o l’Istituto Haffkine a Bombay-India, come altri in USA e Australia producono e hanno disponibili sieri antiveleno, per numerose specie. Alcuni sono sieri monovalenti (cioè specifici per il veleno di una singola specie di serpente), altri polivalenti (cioè, sono cocktail antidotici per numerose specie velenose di serpenti).
In Italia centri antiveleno si trovano a Bologna (Ospedale Maggiore), Catania (Ospedale Garibaldi), Cesena (Ospedale Maurizio Bufalini), Roma (Policlinico Agostino Gemelli), Milano (Ospedale Niguarda) e in molte altre città.
Sebbene ci siano ancora opinioni discordanti, teoricamente la prima prestazione (in base al F.E Russel “Cyclopedia of Medicine, Surgery and Specialties” del 1962 e, H.A Reid “Snakebite in Tropics”, British Medical Journal del 1968), dovrebbe mirare all’estrazione della maggior quantità di veleno inoculata, prima che vada in circolo nell’organismo.
Questo lo si può fare legando dapprima, con un laccio emostatico (o se ci si trova in campagna, anche con fili d’erba o con una cinta) a monte della ferita, e poi praticando un taglietto che unisce i due forellini d’ingresso dei denti (facendo attenzione che non si tagli troppo profondamente, per evitare di lesionare un tendine), suggere quindi il sangue, sputandolo subito.
Ingoiare veleno di Vipera comune (Vipera berus) o di Cobra reale (Hamadryas hannah), come quello di altre specie velenose, in realtà non avvelena chi lo fa, perché hanno effetto solo se in circolo, ma se chi presta soccorso, succhiando il sangue dalla ferita, ha a sua volta ferite nel cavo orale (per esempio per un dente estratto) o taglietti sulle labbra, tali da immettere in circolo il veleno succhiato, verrà a sua volta avvelenato.
Si deve applicare poi un’asticella di legno, o una fascia elastica, per ridurre al minimo il movimento della regione del morso, onde contribuire a ridurre ancora di più la messa in circolo del veleno.
Questo per morsi ricevuti agli arti. In altre parti del corpo, ad esempio il collo, il discorso si complica notevolmente.
Evitare in tutti i modi di utilizzare composti a base ammoniacale sulle ferite e di dare alcool da bere (l’alcool induce vasodilatazione, aumentando la possibilità di messa in circolo del veleno), invece somministrare acqua o tè caldi e zuccherati dà sollievo.
In ultimo, il siero antiofidico, deve essere somministrato in una struttura ospedaliera (per questo si deve portare il soggetto subito in ospedale), in maniera che i medici possano monitorare anche le eventuali reazioni allergiche che potrebbero intercorrere, intervenendo appropriatamente, reazioni che, come detto sopra, sono altrettanto pericolose.
Malattie principali dei serpenti
Come accennato prima, non sono un grande esperto di malattie dei serpenti, ed è un argomento anche poco trattato dai veterinari, perciò, faremo una breve descrizione di queste, dopo aver fatto un breve accenno sul sistema linfatico ed immunitario dei serpenti.
Si conosce ben poco sui mezzi di difesa cellulari e chimici adottati dai serpenti, o dei rettili in genere, per proteggersi da traumi e malattie, ma tutto lascia pensare che siano fondamentalmente simili a quelli degli altri vertebrati superiori.
Il sistema linfatico dei rettili, presenta linee comuni nella classe, per quanto riguarda i gangli sparsi nella parte posteriore dell’intestino, le tonsille poste nel rivestimento del faringe e le isole di timo sparse nella regione del collo.
Nei serpenti, come nei sauri, di solito queste ultime sono due paia, situate su ciascun lato della trachea, non lontano dalla tiroide, non è stato identificato nessun organo analogo alle “borse di Fabrizio”, tipica degli uccelli.
La patologia comparata dei serpenti è poco sviluppata, come del resto quella degli altri rettili, degli anfibi e dei pesci.
Tra le malattie più frequenti d’origine batterica, si trovano le “ulcere buccali”, osservate in esemplari in cattività e apparentemente dovute a specie patogene come Pseudomanas e Pasteurella, e numerose forme di setticemia da bacilli (Aeromonas o Proteus), trasmesse da acari. Anche la tubercolosi, provocata da diversi ceppi di Mycobacterium, è ben conosciuta. Le micosi sono meno frequenti nei rettili, e quindi nei serpenti, che negli anfibi, anche se nelle tartarughe in cattività possono provocare talvolta piaghe intorno agli occhi.
La maggior parte delle malattie infettive, sono provocate da protozoi o parassiti più grossi, pluricellulari. Ad esempio l’Entomoeba invadens è un parassita intestinale che provoca ascessi al fegato dei serpenti, come di altri rettili e negli anfibi.
Nel sangue si trovano plasmodi e tripanosomi simili a quelli della malaria e della malattia del sonno, che vengono trasmessi da insetti ematofagi (ditteri nematoceri e brachiceri: zanzare e mosche), il cui pungiglione penetra tra una squama e l’altra, oppure nelle mucose buccali.
I rettili e quindi i serpenti, ospitano anch’essi la loro parte di vermi parassitari, dei più svariati tipi: piatti, cilindrici, uncinati o provvisti di ventose.
Non mancano zecche, acari di diverse specie, e gli addetti ai rettilari temono particolarmente (compreso il sottoscritto) le infezioni di Ophionyssus, perché questi artropodi trasmettono malattie infettive, che possono portare rapidamente alla morte.
Di solito si raccomandano nei rettili (e quindi nei serpenti), trattamenti con olio di paraffina o con polveri del tipo “aerosol ai siliconi”.
I più strani parassiti dei rettili, sono forse i curiosi “linguatulidi”, che nonostante sembrino vermi, sono in realtà degli aracnidi (ragni) degenerati, che vivono all’interno dei polmoni (o talvolta di cavità) dei serpenti tropicali e altri rettili.
Si conosce soltanto il ciclo vitale di pochissime specie, è probabile che alcune di queste lo svolgano tutto nel medesimo ospite.
Altre invece, come il Porocephalus crotali, durante gli stadi larvali sono parassiti di roditori e di anfibi, prede abituali dei rettili e dei serpenti nello specifico, e divengono adulte in diversi organi dei serpenti a sonagli. Sono note anche specie di mosche (oltre quelle trasportanti il Tripanosoma), che depongono uova in qualsiasi ferita presente in un serpente, come anche in altri rettili e nella cloaca delle tartarughe terrestri. La nascita delle larve che ne consegue, induce “miasi”: la produzione cioè d’escrescenze cutanee aberranti.
Altre patologie sono solo all’inizio del loro studio, ad esempio si è osservato che alcuni serpenti presentano, in ambienti artificiali di contenimento non abbastanza ampi, una degenerazione ateromatosa delle arterie, simile a quella dei mammiferi, compreso l’uomo.
Esistono tumori sia maligni, che benigni; cancri sia epiteliali (carcinomi) o dei tessuti pigmentati (melanomi), come tumori delle ossa e della cartilagine.
Nei vivarium si formano frequentemente escrescenze verrucose cheratinizzate, forse opera di acari; si pensa che il tumore detto a “scorza d’albero” presente nei rettili, potrebbe rappresentare una forma di questa degenerazione cutanea.
I rettili, e quindi i serpenti, non sembrano in grado né di contrarre, né di trasmettere la rabbia, ma occorrono ancora prove ulteriori per escluderli totalmente da questa malattia.
Forse, alcune forme epidemiche di salmonella, che negli anni ’70 del secolo XX sono state molto frequenti nel Regno Unito e negli Stati Uniti soprattutto a carico dei bambini, potrebbero venire associate a una trasmissione ad opera di tartarughe terrestri tenute come animaletti da compagnia.
Conclusioni
Moltissime persone, nutrono una forte avversione per i rettili, soprattutto per i serpenti, e si tende ad attribuire questo fenomeno a un istinto profondamente radicato, ereditato dai nostri antichi progenitori. Ma la maggior parte degli altri mammiferi non sembra affatto spaventata da questi animali: topi, ratti, offerti come cibo a serpenti in cattività, prima di essere attaccati, corrono sul loro corpo con perfetta incoscienza, e capita talvolta, come osservato da qualche biologo dei vivai-rettilari, che siano essi stessi, i ratti, ad uccidere i serpenti.
Una ricerca della seconda metà degli anni ’70 del secolo XX, ha dimostrato che le scimmie Rhesus (es. Macaca rhesus) allevate in cattività, in un giardino zoologico, reagiscono molto meno intensamente alla presenza dei serpenti di quanto non facciano gli esemplari catturati da adulti. Questa differenza, può essere dovuta al fatto che il loro comportamento dipende, almeno in parte, dall’ambiente in cui sono cresciute, e forse dall’apprendimento dovuto all’esperienza diretta o all’esempio. Alcuni psicologi americani, hanno dimostrato che i bambini piccolissimi (0,5-1 anno di età) non hanno paura dei serpenti, ma che spesso questa paura nasca e si concretizza prima che compiano i 4 anni.
Non è chiaro se tutto questo è da attribuirsi alla maturazione di un istinto o all’esempio.
I biologi zoologi Desmond e Romina Morris, pubblicarono in un libro alla fine degli anni ’60 del secolo XX (Uomini-Animali), i risultati di una inchiesta condotta su un campione di circa 12.000 bambini, riguardante il loro atteggiamento nei confronti di svariati animali e dei rettili, nello specifico dei serpenti.
Questi ultimi occupavano, con notevole distacco, il primo posto nella lista degli antipatici tra gli inquilini dello zoo di Londra. Comunque a noi biologi, consola che qualche bambino (0,9% maschi e 0,3% femmine del campione) ha scelto il serpente come animale preferito.
Abbiamo visto in questa scheda, che reputo comunque incompleta, quanto (spero lo sia anche per voi) sia affascinante il mondo dei serpenti e come questi animali siano complessi.
Per cui la prossima volta che andrete in un giardino zoologico o parco acquatico, ricordatevi di non considerarli, come spesso avviene troppo frettolosamente, tra gli animali più stupidi e brutti della natura, e di non dimenticarsi che senza i rettili, e quindi i serpenti, alla fin dei conti noi umani non esisteremmo, evolutivamente parlando!