Profumo dei fiori : per attirare i pronubi a chilometri di distanza

Con la forma e il colore, il profumo è una delle armi più usate nel regno vegetale per attirare gli insetti, anche a chilometri di distanza.

 

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Testo © Giuseppe Mazza

 

La prima pianta terrestre non era profumata.

Non lo erano le felci, che affidavano la loro discendenza alle spore e all’acqua, con microscopiche pianticelle riproduttive e spermatozoi che raggiungevano a nuoto la meta, e non lo erano i muschi, anche se dai loro cuscinetti umidi si sprigiona spesso un tipico odore di bosco.

Certo, anche nelle foreste del Mesozoico, questo profumo non mancava : odore di piante morte, di cadaveri, che lanciavano intorno, come oggi, i loro inconfondibili richiami.

Antichi crostacei, molluschi, mosche, e coleotteri accorrevano, attirati dai liquidi da succhiare e dai tessuti inteneriti dai batteri, ma non era ancora nato il primo fiore, e le piante d’avanguardia, quelle che avevano inventato il polline, l’affidavano al vento.

Avevano messo a punto delle rivoluzionarie “mini capsule spaziali”, da cui, raggiunto lo stigma, l’elemento maschile sbucava, come un astronauta, attraverso un tunnel, fecondando l’ovulo senza contatti col mondo esterno.

E per spingerle più lontano, alcune specie come le conifere, vi avevano applicato delle sacche d’aria che le portavano alte nel cielo, come deltaplani.

I granuli pollinici salivano a 5000 m di quota, e anche più, col rischio di perdere ai raggi ultravioletti il loro potere germinativo, ma poi atterravano a centinaia di chilometri di distanza, attuando fantastici scambi di geni fra popolazioni lontanissime.

Ben più grande, del resto, era il rischio di mancare il bersaglio. La quasi totalità dei principi azzurri, che partivano ibernati per disidratazione nelle loro belle capsule spaziali, non si svegliavano più.

Per destarsi avevano bisogno del bacio della “principessa dello stigma” (in questa “favola” i ruoli sono stranamente invertiti), ma le probabilità di riceverlo erano una o due su un milione.

Gli alberi tuttavia non si davano per vinti, e come i bombardieri americani dell’ultima guerra, compensavano con la quantità l’imprecisione dei loro lanci. Ancora oggi, in Europa, un centimetro quadrato di terra riceve circa 27000 granuli di polline all’anno, e all’epoca in cui il vento era il solo mezzo di trasporto il loro numero doveva essere davvero impressionante.

“Ci sarà bene un sistema meno dispendioso e più preciso”, pensavano alcune piante, e visto che il cielo era pieno di coleotteri, ad una pianta della famiglia delle Cycadaceae venne l’idea di sfruttarli.

Pur continuando ad affidare al vento miliardi di granuli di polline, li rese appiccicosi, e li profumò intensamente con i soliti odori del bosco. Il coleottero arrivava, attirato dall’aroma; al posto dei vegetali marci trovava delle strane sferette con lo stesso gusto, e dopo averne divorate un po’, ripartiva soddisfatto, carico di “capsule spaziali” che raggiungevano così più facilmente la meta.

Non erano certo soavi fragranze, ma pur sempre “profumi”.

Ancora oggi, del resto, alcune Aracee e Stapelie attirano le mosche con pestilenziali odori di carne o pesce marcio; e nel mondo degli insetti il polline è sempre un cibo alla moda, visto che piante come la Lagerstroemia indica ne fabbricano addirittura uno finto, ben in vista, tutto per loro. Ogni astuzia è buona per riprodursi, e quelle delle piante primitive, alla disperata ricerca di nuove strategie di sopravvivenza, dovevano certamente superare la nostra immaginazione.

Per saziare il formidabile appetito dei coleotteri, alcuni fiori cominciarono a profumare i petali, e per esser ben certi d’andare a nozze, pensarono anche di sequestrarli.

Le vistose corolle della Victoria amazonica, un antico fiore da coleotteri, si chiudono ancora stoicamente, la sera, sugli ospiti intenti al pasto, e li liberano solo al mattino, carichi di polline, perché possano fecondare altri fiori. Certo, quando si riaprono sono a brandelli, coi petali metà divorati e metà rotti, ma in fondo la bellezza di un fiore a che serve, se non a riprodursi, e raggiunto lo scopo non ha alcun senso.

È solo con le api e le farfalle, che le piante trovano dei collaboratori seri, efficienti e raffinati, che non devastano le corolle.

Il profumo sempre più intenso e gradevole, diventa allora un importante elemento pubblicitario per il nettare : il pasto sostanzioso e incruento inventato dai fiori per i postini del polline. E se la corolla è l’insegna del ristorante il profumo è la musica di fondo, o l’odore d’arrosto, se si tratta di una piccola trattoria di campagna.

Non sapremo mai se nel prato, esistono ristoranti per gli insetti ad una o più stelle, certo la concorrenza è molta, e ogni specie ha il suo menù e i suoi clienti.

Per non sprecare tempo e profumo, molte piante ne regolano addirittura l’emissione secondo le abitudini degli ospiti.

Così il tiglio e il caprifoglio profumano di sera, l’ Hoya carnosa, alcuni gerani e il gelsomino di notte, le rose al mattino e il ligustro a mezzogiorno.

Tanto che a un botanico era venuta l’idea di costruire un orologio per non vedenti, basato sulle fragranze dei fiori.

Certo gli insetti percepiscono i profumi in maniera molto più intensa e diversa da noi : si direbbe che con le loro antenne possano vederli, quasi palparli, e al maschio del baco da seta basta una sola molecola di bombicol, la sostanza emessa dalla femmina, per individuarne con esattezza la posizione a chilometri di distanza.

Poi osservate come un insetto vola verso un fiore. Se procede in linea retta sarà un atterraggio a vista, ma se avanza contro vento, o vola a zigzag segue senza dubbio un atterraggio strumentale, guidato dagli odori.

Come le linee convergenti sui petali, le scie di profumo gli indicano il percorso, e cosa deve fare perché l’impollinazione avvenga correttamente.

Nelle grosse campanule e nei bianchi convolvoli, privi di disegni anche all’ultravioletto (sotto questi raggi, alcuni fiori, come quelli d’arancio, appaiono per esempio striati), l’atterraggio è guidato solo dal profumo, e negli ippocastani i vecchi fiori hanno un odore diverso dai nuovi, per segnalare subito agli insetti dove il nettare è più abbondante.

Qui i segnali olfattivi sono mirabilmente rinforzati dai visivi, perché le grandi macchie gialle dei fiori freschi virano parallelamente al rosso. Ed anche nei narcisi, per meglio indicare la strada del nettare, i petali bicolori presentano due profumi diversi.

Ma in genere la natura non mette mai le uova nello stesso paniere : i fiori o profumano, o sono colorati.

I fiammeggianti papaveri, la digitale purpurea e le vistose ginestre non hanno praticamente odore. A ciascuno i suoi talenti, le sue armi per sedurre, in una lotta senza quartiere che culmina, nelle orchidee, con la creazione d’autentici profumi erotici, per “l’insetto che non deve chiedere mai”.

Queste emettono, di solito, innocenti fragranze di vaniglia (la vaniglia, stessa è un’orchidea), ma i fiori di un genere australiano, il Drakea, imitano perfettamente, nei dettagli, la forma, il colore e il richiamo odoroso delle femmine di certe vespe.

E qui il profumo è l’elemento portante dell’inganno, perché anche tagliuzzando i petali con una forbice, fino a renderli irriconoscibili, le vespe maschio vi si gettano sopra, in picchiata, come sulle vere femmine.

Un’altra orchidea sado-masochista, la Coryanthes, ha legato a sé, in modo analogo, i maschi di alcune api americane che hanno bisogno del suo profumo per fabbricare i loro ormoni sessuali. Costrette da millenni, per riprodursi, ad uno sgradevole tuffo in una vasca colma di un liquido vischioso, le povere api trovano, in extremis, un gradino, e sono costrette a infilarsi in un lungo stretto tunnel dove, fra botte e frustate, si vedono accollare, o prelevare due sacche di polline.

Ma esistono anche fiori più gentili. Un’altra orchidea latino-americana, il Catasetum, dà addirittura all’insetto un profumo, già pronto, per attirare le femmine. Questo deve solo raccoglierlo, con i peli delle zampe, condensarlo in una cavità predisposta allo scopo, e vaporizzarlo con le ali per sedurre le compagne.

A ben vedere l’uomo fa lo stesso. E viene veramente da chiedersi come mai, dei profumi elaborati dalle piante per gli insetti, cento milioni d’anni fa, attirino tanto la specie umana, vecchia solo di 5 milioni d’anni.

A parte il “Castoreo”, il “Muschio” e il “Zibetto”, estratti da ghiandole sessuali del castoro, di un cervo, e di un gatto selvatico, e l’ “Ambra grigia” secreta dal fegato dei capidogli, l’uomo ha orrore degli odori dei mammiferi e dei suoi simili, associati in genere alla mancanza d’igiene, e poi, inspiegabilmente, adotta gusti e comportamenti da insetto.

Nella logica naturale il profumo dei fiori serve ad attirare gli insetti, ma il rapporto uomo-fiore è senza senso, puramente gratuito, anche se a giudicare dai prezzi dei profumi, questa “gratuità” non è poi durata tanto a lungo.

 

 

SCIENZA & VITA NUOVA  – 1989