Testo © DrSc Giuliano Russini – Biologo Zoologo
Dall’inizio del Cenozoico (era Terziaria), troviamo, nella moltitudine di forme di mammiferi che si sono differenziate a partire dal ceppo progenitore degli insettivori, numerose specie che tendono ad acquisire dimensioni relativamente grandi ed un regime alimentare vegetariano.
Le più antiche di queste specie, così sembra, si nutrivano di foglie d’albero e d’arbusti; molte forme successive utilizzarono come cibo le erbe delle praterie che verso la metà del Cenozoico si erano ampiamente sviluppate.
I denti molari, all’origine piuttosto piccoli e appuntiti all’estremità, si erano trasformati, per dare luogo a larghe corone e costituire potenti strumenti per macinare anche la materia vegetale più coriacea.
Mentre le forme più primitive erano massicce e in genere mal organizzate per la corsa, molti di questi erbivori, tipici delle foreste e delle praterie cenozoiche, si erano evoluti in modo da divenire molto veloci; l’unico mezzo che avevano per sfuggire ai loro predatori e per correre rapidamente le ampie distese erbose.
Gli arti divennero in molti casi lunghi ed esili, ed invece di poggiare sulla pianta o la suola plantare (plantigradi), molti impararono a correre sulle punte delle dita (digitigradi), rinforzate da zoccoli potenti e cornei, come risultato della trasformazione degli artigli ancestrali. Zoccolo in latino si scrive “ungula”, ed è per questa ragione, che questo folto numero e tipi di forme viventi, vengono dai biologi zoologi e biologi paleontologi classificate sotto il termine generico di Ungulati (Ungulata) o mammiferi con zoccolo; definiti anche unguligradi.
Questo vasto gruppo tassonomico, trova però la sua razionale suddivisione in due fondamentali ordini, che sono quello dei Perissodattili (Perissodactyla) e quello degli Artiodattili (Artiodactyla). Un certo numero d’ungulati, ad organizzazione piuttosto arcaica, erano già apparsi nel Paleocene (inizio dell’era Cenozoica o Terziaria) e queste forme arcaiche rimasero comuni nell’epoca seguente, l’Eocene. Una specie tipica e ben nota di questo gruppo è il Phenacodus, vissuto nell’Eocene inferiore d’Europa e dell’America settentrionale.
Questo erbivoro, aveva già raggiunto dimensioni rispettabili, ed era grande all’incirca come un tapiro attuale.
Per le sue proporzioni, il Phenacodus è simile, in un certo senso, ai carnivori arcaici di quei tempi, i Creodonti (Creodonta), poiché il corpo e la coda sono lunghi e gli arti ancora molto corti e di struttura primitiva.
Tuttavia si trovano già in questo animale alcuni dei caratteri propri di un ungulato, considerando che in molti degli ungulati successivi, si nota una riduzione del numero delle dita.
Il Phenacodus ha mantenuto infatti il numero primitivo e completo di dita, ma ognuna di queste è ricoperta da un piccolo zoccolo. Per quanto riguarda i denti molari, benché le loro corone siano basse, tanto da essere definiti denti “brachidonti”, appaiono già allargate ed atte alla masticazione di cibo vegetale. Lo stesso Phenacodus è un po’ troppo grande e troppo recente per essere considerato come precursore reale dei gruppi successivi di ungulati, ma è tipico di un ordine di mammiferi placentali primitivo, quello dei Condilartri (Condylarthra), vissuto tra il Paleocene e l’Eocene, che comprende il ceppo iniziale di una quantità di linee evolutive di ungulati, se non di tutte.
Molti dei gruppi che derivarono da tale ceppo, si mostrarono aberranti in un modo o nell’altro, di conseguenza il ramo zoologico evolutivo di appartenenza, si spense o abortì. Tra poche righe, parleremo, prima d’introdurci nel mondo dei perissodattili, di queste forme vestigiali arcaiche, perdutesi nella notte dei tempi.
Oggi i mammiferi erbivori (o fitofagi) che popolano la Terra, afferiscono nella maggioranza dei casi a due ordini principali, entrambi digitigradi. Uno è quello che presenta un numero di dita dispari e viene per questo detto degli “imparidigitigradi”, ovvero quello dei Perissodattili (Perissodactyla), ove il peso dell’asse corporeo, poggiando solamente su un unico dito, li porta ad essere nominati anche come “mesassoni”; l’altro è quello dei “paridigitigradi”, ovvero gli Artiodattili (Artiodactyla), dove il piede è costituito da un numero sempre pari di dita, 2 o 4 secondo gruppo; poiché il peso dell’asse corporeo passa tra il terzo e quarto dito, viene definito anche dei “parassoni”.
Brevemente, accenniamo, prima di cominciare a discutere dei perissodattili, di quei rami zoologici che prima di abortire evolutivamente, hanno dato luogo a forme aberranti transitorie di mammiferi erbivori. Questi ungulati arcaici, che all’epoca della loro comparsa, ancora non avevano preso una direzione evolutiva né verso i perissodattili, né verso gli artiodattili, presentavano uno schema strutturale molto particolare, che ebbe scarso successo evolutivo. Tra i perissodattili e gli artiodattili ben riusciti, l’evoluzione e la specializzazione progredirono di solito a un ritmo lento o molto moderato, l’aumento delle dimensioni si realizzò quindi molto adagio, una forma di speciazione “braditelica”.
La storia di alcune forme arcaiche è del tutto differente.
Ad esempio i Pantodonti (Pantodonta) e gli Uintateri (Uintatheriidae), mammiferi placentati erbivori, che comparvero nel periodo Paleocenico, era Cenozoica, prima dei perissodattili e degli artiodattili, raggiunsero dimensioni grandi molto rapidamente e altrettanto rapidamente scomparvero; una forma di speciazione “tachitelica”, caratterizzata da una cinetica di accrescimento e speciazione rapidissime.
Tra i pantodonti sono note alcune specie animali paleoceniche che presentavano già una taglia ragguardevole; la specie Coryphodon è la meglio conosciuta di questo gruppo dai biologi paleontologi; risale all’Eocene inferiore ed era presente sia in America, sia in Europa.
Contemporaneo del piccolo Eohippus (uno dei progenitore dell’attuale Equus caballus), questo animale aveva un’altezza al garrese variabile da 1,20 m a 1,50 m, una struttura massiccia e arti piuttosto corti, poco adatti alla corsa. Gli uintateri, dell’ordine dei Dinocerati (Dinocerata) eocenici, gruppo dell’America settentrionale, comparvero appunto più tardi dei pantodonti; infatti se ne comincia ad avere notizia, mediante fossili, alla fine del Paleocene e durante tutto l’Eocene. Ma, come i pantodonti, essi acquisirono grandi dimensioni rapidamente; le ultime forme della fine dell’Eocene, avevano dimensioni equivalenti a quelle del rinoceronte bianco africano, ed erano giganti per l’epoca. Questi pesanti erbivori, pantodonti e uintateri, si spostavano lentamente nelle immense praterie del Terziario, fornendo prede ai carnivori ivi presenti.
I Coryphodon e gli uintateri possedevano zanne appuntite, che usavano probabilmente per difendersi; gli uintateri svilupparono anche tre paia di protuberanze cornee, distribuite in lunghezza sul cranio lungo e schiacciato. Ancora oggi, i paleontologi e i paleobiologi non hanno informazioni sufficienti, per capire se questi ungulati arcaici sono scomparsi a causa della predazione, o all’incapacità di entrare in competizione con animali più evoluti; quello che sicuramente si sa, è che scomparvero molto rapidamente.
Simpson (1971) classifica così i Perissodattili :
Sottordine: Hippomorpha
Superfamiglia: Equoidea
Famiglia: Palaeotheriidae, estinta
Famiglia: Equidae
Superfamiglia: Brontotherioidea
Famiglia: Titanotheria, estinta
Sottordine: Ancylopoda
Famiglia: Chalicoteria o Ancylopoda, estinta
Sottordine: Ceratomorpha
Superfamiglia: Apiroidea
Famiglia: Isectolophidae, estinta
Famiglia: Helaletidae, estinta
Famiglia: Lophiodontidae, estinta
Superfamiglia: Rhinocerotoidea
Famiglia: Hyracodontidae, estinta
Famiglia: Amynodontidae, estinta
Famiglia: Rhinocerotidae
Famiglia: Tapiridae
I perissodattili, comprendono tra le forme attuali i cavalli (compresi gli asini, le zebre e loro affini), i rinoceronti e i tapiri. Tale ordine, è rappresentato oggi, da un numero relativamente piccolo di generi e specie. Erano molto più abbondanti nei primi tempi dell’era dei mammiferi e comprendevano allora due gruppi aggiuntivi oggi estinti, quello dei Titanoteri (Titanotheria) e quello dei Calicoteri (Chalicotheria, Ancylopoda, ecc.) vedi lista.
Caratteristica fondamentale di questo ordine di mammiferi erbivori, placentali o placentati, quindi euteri, è che l’asse di simmetria dell’arto passa per il dito medio del piede.
Poiché nel corso della loro storia evolutiva, hanno avuto necessità ad aumentare la loro velocità di spostamento e a sollevare dal terreno il palmo e la suola plantare, per correre sull’estremità delle dita, ne risultò un riduzione del numero sui due lati del piano mediale. Il pollice e l’alluce, orientati lateralmente, erano inutili in questo tipo di locomozione che si stava formando e ben presto scomparvero.
Dopo anche la successiva scomparsa del mignolo, si formò una zampa tridattila.
Questa forma rimase in molti rappresentanti dell’ordine, ma nei cavalli più recenti, le due dita laterali si ridussero sempre più fino ad abortire completamente, rimanendo solo una zampa monodattila; l’arto che è presente negli equini attuali.
Nell’arto anteriore, il mignolo è stato più persistente, ed oggi ad esempio, nei tapiri si ha una “mano” con quattro dita.
Nei cavalli e nei rinoceronti, comunque, un arto anteriore a tre dita, comparve molto presto nella storia evolutiva di queste famiglie e negli equidi, l’arto anteriore divenne infine monodattilo, come l’arto posteriore.
L’ Eohippus, che oggi alcuni biologi tassonomisti chiamano Hyracotherium, è il più antico dei cavalli veri e propri; per un gran numero di caratteri, sembra essere molto affine alla forma ancestrale dell’intero ordine.
Questo “cavallo aurorale”, apparve all’inizio dell’Eocene e i suoi resti, sono abbondanti nei depositi fossili di quest’epoca, in particolare nel Wyoming, USA.
Era un animale piccolo e sottile, alcuni individui erano grandi come una volpe o un cagnolino.
La riduzione delle dita aveva già avuto inizio, ma esistevano ancora quattro dita funzionali nell’arto anteriore e tre su quello posteriore. I denti molari erano ben sviluppati, ma avevano una corona molto bassa e erano utilizzati solo per masticare foglie e altri vegetali a consistenza tenera.
Questi cavalli preistorici abitavano nelle radure delle foreste, i loro denti erano adatti quindi al nutrimento offerto da quel tipo di vegetazione ed i loro arti, muniti rispettivamente di tre e quattro dita portanti, si adattavano molto bene per consentire una velocità di spostamento considerevole su un terreno molle.
All’inizio dell’Eocene, per tutta questa epoca ed anche per le successive del Terziario, l’ Eohippus abitava sia in Eurasia che nell’America settentrionale. Tra la metà e la fine dell’Eocene, in alcune aree però, venne sostituito da altri generi poco diversi e tra l’altro molto meno comuni di lui.
Il Mesohippus, dell’Oligocene dell’America settentrionale, rappresenta un modestissimo progresso evolutivo. Era un cavallo un po’ più grosso, che raggiungeva in media le dimensioni d’un cane da pastore; il “mignolo” era scomparso completamente.
Oltre a questi dettagli, poche altre variazione avvennero, rispetto la forma eocenica.
Abbiamo ancora a che fare con animali che brucavano nella foresta. Forme simili, la cui taglia andò progressivamente aumentando, ma la cui struttura rimase costante, si mantennero in numero decrescente durante il Miocene e nella prima parte del Pliocene. Uno di essi, l’Anchitherium, raggiunse l’Europa attraverso la Beringia, un istmo di terra lungo 1700 km, oggi scomparso, al suo posto c’è lo stretto di Bering, ove i cavalli erano ormai da lungo tempo scomparsi.
Ma nel Miocene si ebbe una nuova fase evolutiva per i cavalli. Proprio in quest’epoca dell’era Cenozoica, comparvero in termini botanici ed ecologici le praterie, mentre le pianure divennero sempre più abbondanti ed ampie. Nacque allora, per opera della pressione selettiva-ambientale, una nuova modalità di vita, che portò alla generazione degli erbivori delle praterie; in questo modo, la linea evolutiva dei cavalli, si modificò in maniera molto netta e relativamente rapida, per poter occupare questa nuova “nicchia ecologica”, piena di risorse.
Le erbe che ricoprivano questi campi estesi, contenevano una certa percentuale di silice (simile al vetro), come i paleobotanici hanno dimostrato, quindi erano molto dure per i denti. I cavalli del Miocene, come il Merychippus, si adattarono quindi a un tale regime alimentare, grazie allo sviluppo di denti a corona alta, detti “ipsodonti”, capaci di resistere a una lunga e intensa usura.
Il suolo delle praterie era più stabile, fermo e duro di quello dei boschi e delle foreste, ed era quindi possibile raggiungere velocità di gran lunga più alte. Si manifestò quindi, nei cavalli miocenici, la tendenza a ridurre le dita laterali per appoggiarsi su un solo dito, lungo e sottile. Questo tipo d’adattamento, portò alla nascita di un cavallo del Pliocene, il Pliohippus, dalle dimensioni di un pony e che, a parte la persistenza di minuscole dita laterali e le dimensioni, era in tutto e per tutto simile all’attuale cavallo del genere Equus.
Un altro genere evolutivamente affermato, l’ Hipparion, invase l’Eurasia e raggiunse anche l’Africa. A questi generi, alla fine del Pliocene, successe il genere Equus, al quale appartengono gli attuali cavalli, gli asini e le zebre.
Il solo cambiamento degno di nota, da mettere in evidenza, è la scomparsa delle piccole dita laterali, scomparsa che porta al tipo “monodattilo” definitivo.
L’ Equus seguì anche lui la strada dell’ Hipparion, stabilendosi in Eurasia ed in Africa.
Alcuni equidi, mediante l’istmo di Panama, raggiunsero per la prima volta il Sud America. Durante il Pleistocene, cavalli di vario tipo si svilupparono in tutto il mondo, tranne che in Australia; quelli che si trovano allo stato selvatico oggi in Australia, soprattutto nel Nuovo Galles, sono varietà ferali, quindi rinselvatichite, di razze equine importate nel continente.
Ma a questo punto, proprio alla fine della storia evolutiva dei cavalli, si nota un fatto molto strano. L’America settentrionale, come abbiamo visto, è stata il teatro in cui si è svolta, tappa per tappa, l’evoluzione del cavallo. Nel Pleistocene, era Quaternaria, i cavalli continuarono a vivere tranquillamente in America del Nord, per tutta l’era glaciale. Ma poi, proprio poche migliaia di anni fa, quando ormai erano passate tutte le varie fasi di invasione e ritirata dei ghiacci, che hanno caratterizzato le varie ere glaciali, Donau, Gunz, Mindel, Riss e Würm, le cosiddette glaciazioni alpine e quindi il pianeta, si stava avvicinando alle attuali condizioni climatiche, i cavalli scomparvero dal Nuovo Mondo!
Quando gli europei approdarono nelle Americhe, i cavalli erano spariti dalle terre nelle quali erano vissuti per circa cinquanta milioni di anni e più. Quale fu la causa o le cause?
In realtà i biologi ed i geologi, ci dicono oggi che la scomparsa dei cavalli dal Nuovo Mondo non fu altro che un capitolo di un fenomeno più generale e complesso d’estinzione. Il cavallo infatti non fu il solo a scomparire bruscamente, alla fine dell’ultima epoca glaciale, tra i numerosi grandi mammiferi che nel Pleistocene abitavano l’America settentrionale.
Bradipi arboricoli, gliptodonti (i precursori degli armadilli, che oggi troviamo in Sudamerica), cammelli, mastodonti e mammut, che scorrazzavano su questo continente fino a qualche migliaio di anni fa, sono ugualmente scomparsi !
A quanto si può comprendere dai resti fossili, i mammiferi più piccoli non si estinsero; ma tra gli animali di una certa dimensione, solo l’orso sopravvisse ad oggi, insieme ad alcune specie di cervidi, al bisonte, al montone e alla capra di montagna (questi ultimi tre, sono gli immigrati più recenti).
Non è stata mai offerta una spiegazione chiara ed esaustiva, sulla massiccia scomparsa dei grandi mammiferi dell’America settentrionale.
L’unico elemento nuovo, in quella regione, al momento in cui stava avvenendo tale scomparsa, è l’uomo, che giunse quindi solo tardi nel Nuovo Mondo.
La sua influenza diretta, attraverso l’uccisione di questi grandi animali, fu quindi certamente piccola, ma forse è possibile che esso possa essere stata una delle possibili cause, o una concausa indiretta della loro scomparsa, sconvolgendo alcuni delicati equilibri ecologici, che regolavano i rapporti interni di questa fauna.
Ma lasciamo questo importante problema insoluto di tipo generale, per tornare all’evoluzione dei perissodattili. Una seconda famiglia di sopravvissuti è quella dei Tapiri (Tapiridae), limitati attualmente all’America meridionale ed alla Malesia.
I tapiri attuali vivono nelle foreste, ove conducono una vita del tutto simile a quella dell’ Eohippus.
Ricordano inoltre questo cavallo preistorico per aver mantenuto sull’arto anteriore le quattro dita e appaiono poco diversi, nella loro morfologia, dai cavalli antichi, se si prescinde dalla fisionomia più tozza, la presenza di un’appendice nasale nelle specie attuali e, caratteristica più particolare, lo sviluppo sui molari superiori di due creste trasversali, in luogo dei molari complessi che troviamo negli equidi.
Nell’Eocene un certo numero di specie affini ai tapiri, sotto parecchi aspetti molto simili all’ Eohippus, erano comuni tanto in Eurasia che nell’America settentrionale. È da tali forme ancestrali che derivano sia i tapiri dell’Oligocene, che quelli delle epoche successive nell’emisfero Boreale. Tuttavia, sembra che i tapiri siano fondamentalmente animali di paesi caldi; è verosimile, che siano stati cacciati dal freddo pleistocenico dalle loro praterie nordiche, per non farvi mai più ritorno.
La loro presenza in due zone tropicali, l’una molto distante dall’altra, e la loro assenza dalle regioni che le separano, sono un eccellente esempio di distribuzione geografica discontinua, fenomeno che un tempo imbarazzava moltissimo i biologi studiosi della distribuzione geografica degli animali.
Oggi l’esistenza di specie come il Tapiro terrestre (Tapirus terrestris), che vive nelle foreste paludose dell’America meridionale, ed il Tapiro dell’Asia tropicale (Tapirus indicus), con pelame pezzato bianco-nero, ci fanno capire, come del resto accade per altre specie animali, che tale distribuzione è da imputarsi ai mutamenti climatici.
La terza ed ultima famiglia di perissodattili viventi, è quella dei Rinoceronti (Rhinocerotidae).
I rinoceronti attuali presentano solo poche specie, che vivono nel Sud dell’Asia ed in Africa. Sono tutte severamente minacciate nella loro esistenza.
Forse una specie asiatica, il famoso Rinoceronte di Sumatra (Dicerorhinus sumatrensis) è purtroppo già scomparsa.
I rinoceronti attuali, tutti di dimensioni ragguardevoli, vengono per questo definiti pachidermi: forme pesanti, con arti massicci, detti “colonnari”, a tre dita. Sono forniti di corni, più o meno sviluppati, impari o pari, non costituiti da ossa, né da sostanza cornea, ma è o sono, una massa/e molto fitta di peli agglutinati, che non si conservano nei processi di fossilizzazione.
Un carattere distintivo dei rinoceronti, consiste nello sviluppo sui molari superiori di una specie di cresta a forma di “π” (pi greco), con la barra trasversale sul lato esterno del dente. Le specie antiche dell’Eocene, affini ai rinoceronti e contemporanee dei primi cavalli e degli antenati dei tapiri, erano molto diverse dalle forme attuali. Erano animali slanciati, adatti alla corsa, con quattro dita negli arti anteriori, sprovvisti di corona nei denti e difficilmente identificabili come rinoceronti, se non per la particolare struttura dei molari.
Si trovavano ancora nell’Oligocene forme slanciate e capaci di correre velocemente; ad esempio l’ Indricotherium dell’Oligocene medio, alto sino a cinque metri al garrese, viveva in Siberia nelle savane erbose vicino al mare di Aral, nutrendosi con foglie d’alberi.
Ma è in quest’epoca che comincia l’evoluzione verso le forme più tipiche, che mostrano un netta tendenza all’aumento delle dimensioni, ad una struttura più massiccia, ed alla perdita (come per i cavalli, della medesima epoca) del quarto dito anteriore. Il corno, invece, ci ha messo un bel po’ di tempo prima di comparire.
Nell’Oligocene e nelle epoche successive, i rinoceronti erano fra gli abitanti più comuni delle pianure nei continenti dell’emisfero settentrionale terrestre e si diversificavano in un gran numero di forme.
Il Baluchitherium dell’Oligocene d’Asia, per esempio, aveva quasi l’aspetto di una enorme giraffa. Massiccio, con un’altezza valutata sopra i sette metri, è il più grande mammifero terrestre conosciuto.
Tra le altre forme del Terziario, si trovano specie anfibie, con gli arti molto corti.
Nel Pleistocene, Quaternario, comparve un rinoceronte lanoso, adattato al clima freddo delle epoche glaciali.
Malgrado l’abbondanza antica di rinoceronti, la fine del Terziario doveva segnarne una forte diminuzione numerica, con la loro scomparsa dall’America settentrionale e l’inizio del loro declino fino alla modesta situazione, in termini di numero di generi e specie, dell’epoca attuale.
Due ultime notevoli famiglie, ormai completamente estinte, concludono la serie dei perissodattili.
I già citati titanoteri, le cui forme terminali quale Brontotherium, risalgono all’inizio dell’Oligocene inferiore e sono particolarmente comuni negli strati delle “cattive terre”, del Dakota meridionale in USA, meritano certamente il nome di “animali titanici”, poiché erano colossali, molto più grandi del rinoceronte bianco, alcuni anche più grandi dell’elefante di savana africano attuale (Loxodonta africana).
Questi giganteschi mammiferi, vivevano nelle pianure erbose, che si estendevano alle pendici delle catene vulcaniche, allora in attività. Erano animali ad andatura lenta, per cui potevano essere prede facili per i carnivori dell’epoca, per tale ragione, svilupparono un paio di grosse protuberanze ossee, nella regione del naso. Oltre che nell’America settentrionale, ove erano originari, erano anche rappresentati in Asia. Le forme dell’inizio Eocene di questi grossi mammiferi erbivori non si scostavano molto, come per i rinoceronti ed i tapiri, dai cavalli dell’epoca, ma si osservava già una più rapida tendenza a raggiungere dimensioni maggiori.
Oltre l’Eocene inferiore, queste forme un tempo abbondanti, scompaiono totalmente. La causa della loro scomparsa, non è dovuta probabilmente ai loro predatori, ma al tipo di nutrizione che avevano.
I denti molari, a corone basse, erano idonei solo per vegetali a tenera consistenza (foglie, germogli, ecc.); una variazione anche minima nella composizione della flora nei loro areali, bastò quindi per provocare la morte per inedia dei titanoteri e la loro estinzione.
In ultimo i calicoteri o ancilopodi, quali Moropus, ancora una volta comparvero per la prima volta con l’Eocene, da antenati poco diversi dai primi cavalli; ma seguirono ancora un’altra direzione o ramo evolutiva/o.
Le proporzioni generali del corpo, erano notevolmente vicine a quelle dei cavalli, i denti erano invece del tutto simili a quelli dei titanoteri; per quanto riguarda gli arti, i calicoteri inventarono una struttura particolare, nella quale le dita non terminavano con uno zoccolo ciascuna, ma con artigli enormi, utilizzati probabilmente per scavare il suolo in cerca di radici, tuberi, rizomi.
Benché fossero abbondanti nei depositi del Terziario, svanirono completamente poco dopo l’inizio del Pleistocene.