Testo © DrSc Giuliano Russini – Biologo Zoologo
Classificazione secondo Simpson (1973) dell’ordine Artiodactyla.
►Sottordine Suiformes:
-Famiglia Suidae
-Famiglia Hippopotamidae
-Famiglia Tayassuidae
►Sottordine Tylopoda:
-Famiglia Camelidae
►Sottordine Ruminantia:
-Famiglia Amphimerycidae estinta
Infraordine Tragulina
-Famiglia Prodremotheriidae estinta
-Famiglia Hypertragulidae estinta
-Famiglia Praetragulidae estinta
-Famiglia Tragulidae
-Famiglia Leptomerycidae estinta
-Famiglia Archaeomerycidae estinta
-Famiglia Lophiomerycidae estinta
Infraordine Pecora
-Famiglia Moschidae
-Famiglia Cervidae
-Famiglia Giraffidae
-Famiglia Antilocapridae
-Famiglia Bovidae
I Perissodattili (Perissodactyla) formano, come abbiamo visto, all’inizio e alla fine del Terziario un gruppo importante e vario, ma ora prossimo all’estinzione. Ben diversa è la storia naturale dell’ordine degli Artiodattili (Artiodactyla), detti anche ungulati paridigitigradi. Erano rari all’inizio dell’Eocene, ma nel corso del Terziario aumentarono rapidamente il numero delle specie e di individui e sembra, che siano ora nel momento del loro massimo sviluppo evolutivo; comprendono infatti forme come i maiali, i pecari, gli ippopotami, i cammelli, i lama, i cervi, le giraffe, i bovini, le pecore e le capre, per non parlare della innumerevole schiera delle antilopi e gazzelle.
Il termine “artiodattili”, con dita in numero pari, deriva da una particolare riduzione del numero delle dita, in seno a quest’ordine.
Se i perissodattili, per la maggior parte, hanno ridotto il numero delle dita da cinque a tre, gli artiodattili hanno invece perso, piuttosto precocemente, il pollice e l’alluce, ma hanno avuto tendenza a conservare, almeno per un certo periodo, un arto con quattro dita, in cui il terzo e quarto dito tendevano a formare un paio centrale prominente, mentre il secondo ed il quinto fiancheggiavano le precedenti sui lati.
Un ulteriore progresso può derivare, come spesso è accaduto, dalla riduzione e spesso dalla perdita delle due dita laterali, con la formazione di quello che viene chiamato il “piede caprino” formato in realtà, da due dita molto accostate.
Un altro carattere distintivo degli artiodattili riguarda l’adattamento alla corsa veloce, ed interessa un osso della caviglia, detto “astragalo”.
Quest’osso forma l’articolazione principale fra la gamba ed il piede. Nella maggior parte dei mammiferi la superficie superiore si presenta curva, spesso a forma di puleggia, per permettere i movimenti, mentre la sua superficie inferiore è piatta.
Negli artiodattili, e solo in questo gruppo animale, sia la superficie superiore che inferiore dell’astragalo sono arrotondate a forma di puleggia, permettendo così un’eccezionale ampiezza di movimenti dell’arto posteriore, tanto nella corsa che nel salto.
Gli artiodattili più antichi dell’Eocene mostrano pochi cambiamenti evolutivi (eccezione fatta per l’astragalo caratteristico), in rapporto agli ungulati inferiori del livello dei Condilartri (Condylarthra).
Ma prima della fine di quest’epoca, era iniziato un cambiamento che vedremo svilupparsi in forme evolventesi in opposte direzioni.
In uno dei rami principali dell’evoluzione degli artiodattili, i denti tendono a mantenere la corona bassa, con cuspidi arrotondate, per un regime alimentare onnivoro.
I maiali, tipici rappresentanti di questo gruppo, compaiono, con forme affini, negli strati fossiliferi dell’Eurasia alla fine dell’Eocene. Hanno ancora quattro dita sulle zampe, benché il paio laterale sia ridotto. Presentano un regime onnivoro, più che propriamente erbivoro; i canini sono ben sviluppati a foggia di zanna, incurvati generalmente verso l’esterno e anche all’insù, sui due lati del grugno.
I maiali propriamente detti, sono animali che appartengono unicamente al Vecchio Mondo e non hanno mai raggiunto le Americhe, dove invece troviamo un ramo affine proveniente dallo stesso ceppo: i pecari.
Questi sono simili ai maiali, ma di aspetto più slanciato e, benché le loro zanne siano prominenti, non presentano la particolare curvatura che hanno nei maiali.
I pecari sono vissuti, per la maggior parte della loro storia naturale, nell’America settentrionale e abitarono anche nel Pleistocene, durante il Quaternario, le regioni non invase dai ghiacci in questa parte del continente.
Nel Pleistocene, tuttavia, conquistarono anche l’America meridionale e attualmente sono quindi presenti nelle regioni tropicali e subtropicali.
Ad esempio, il Pecaro dal collare (Dicotyles tayassu), lungo fino a 46 cm, è un loro tipico rappresentante.
Tale animale è più piccolo del cinghiale nostrano Sus scrofa e frequenta in gruppi numerosi le foreste pluviali tropicali e subtropicali sudamericane.
Sono inoffensivi se non aggrediti, altrimenti possono diventare pericolosi anche per l’uomo; sono tra le prede preferite del Giaguaro (Panthera onca) e dell’Anaconda (Eunectes murinos).
Nel Terziario si sviluppò un certo numero di suiformi, animali affini al gruppo maiali-pecari, dei quali i soli sopravvissuti sono: l’Ippopotamo anfibio (Hippopotamus amphibius) e l’Ippopotamo pigmeo (Choeropsis liberiensis); animali massicci (il secondo più piccolo del primo), entrambi anfibi e attualmente confinati nell’Africa subsahariana occidentale, ma presenti nel Pleistocene fino all’Eurasia, ove vivevano in regioni lontane fra loro, come l’Inghilterra e la Cina.
In realtà, i genetisti ci dicono oggi che gli ippopotami sarebbero più strettamente imparentati con l’ordine dei Cetacei (Cetacea), che non con il gruppo dei suiformi.
In sostanza si prospetterebbe che, come i delfini derivino da un progenitore carnivoro terrestre, che a forza di vivere sempre più tempo nell’acqua, ha in tempi geologici, riacquistato la capacità di viverci permanentemente, generando i delfini, forse esista una relazione di questo tipo anche tra gli ippopotami ed i cetacei, più specificamente con il sottordine dei Misticeti (Mysticeti); alcuni autori ci informano che sarebbe utile introdurre il superordine dei Cetartiodattili (Cetartiodactyla), che risolverebbe il paradosso; ai tassonomisti l’ultima parola.
Gli ippopotami propriamente detti, non sono noti prima della fine del Pliocene; gli scienziati che persistono su una esistenza prettamente terrestre di questi animali, ne ipotizzano una derivazione da un gruppo preistorico di suiformi di grandi dimensioni, gli Antracoteri (Anthracotheriidae), da cui secondo altri paleontologi, deriverebbero anche le balene, per cui ippopotami e balene, sarebbero cugini, un po’ come l’essere umano e le scimmie antropomorfe afferenti alla famiglia dei Pongidi (Pongidae). Gli antracoteri risalgono soprattutto, nel Vecchio Mondo, al tardo Eocene.
Oltre alle forme appena citate, quasi tutti gli altri gruppi di artiodattili, dalla fine dell’Eocene in poi, hanno avuto tendenza ad evolversi in maniera del tutto diversa.
La direzione generale di tali linee, fu di acquisire un regime alimentare esclusivamente erbivoro; il che significò denti che hanno spesso corona alta (ipsodontia) e cuspide a forma di mezzaluna, per questo si usa anche il termine di “selenodonti”, capaci di masticare efficacemente i vegetali più coriacei; uno stomaco, diviso in compartimentazioni o camere, che permette la ruminazione, necessaria a una migliore digestione di tali alimenti; infine, nella maggior parte dei casi, una tendenza ad acquisire una capacità di spostamento con arti più snelli e dita laterali ridotte.
Varie specie d’artiodattili hanno progredito, più o meno, lungo tali linee evolutive. Citiamo come esempio di un gruppo che ha manifestato un’evoluzione piuttosto ristretta in questa direzione, quello degli Oreodonti (Oroeodontidae), dell’America settentrionale che, del resto, riuscirono a prosperare per un periodo considerevole durante il Terziario e sono i fossili più comuni, nella maggior parte delle formazioni dell’Oligocene e del Miocene di quel continente. Sono chiamati sovente, in mancanza di un termine comune più appropriato, i “maiali ruminanti”, poiché le proporzioni del loro corpo tozzo, sono simili a quelle dei maiali, ma i denti di tipo selenodonte, tradiscono un’affinità con i ruminanti più evoluti.
Un secondo gruppo americano caratteristico è quello dei cammelli, sottordine Tilopodi (Tylopoda).
Attualmente nessun rappresentante di questo sottordine, famiglia dei Camelidae, vive nell’America settentrionale; i cammelli, sono limitati al Vecchio Mondo, con la specie asiatica di Camelus bactrianus e quella nordafricana di Camelus dromedarius, mentre i lama e le forme affini, come la vigogna, l’alpaca, il guanaco selvatiche, sono confinate, allevamenti a parte, in Sudamerica.
In questi animali lo stomaco è in parte suddiviso come quello dei ruminanti (vedi Bos taurus, Camelus bactrianus, Camelus dromedarius e Lama guanicoe); i denti, sono selenodonti e all’estremità degli arti, mancano le dita laterali.
La caratteristica morfologica che ha portato al nome del sottordine, è la presenza di suole callose su cui poggia il piede; queste gli permettono la deambulazione su terreni soffici come quelli sabbiosi dei deserti.
I precursori dei cammelli comparvero nell’America settentrionale verso l’inizio dell’Oligocene; una gran varietà di cammelli, esisteva verso la fine del Terziario in America, dove erano confinati.
Nel Pleistocene i cammelli migrarono verso il Vecchio Mondo e gli antenati dei lama, delle alpaca, delle vigogne e dei guanachi verso l’America meridionale.
Nell’America settentrionale alla fine del Pleistocene, Quaternario, i cammelli scomparvero altrettanto misteriosamente e improvvisamente dei cavalli.
La principale linea evolutiva, che conduce agli attuali forme di ruminanti più evolute, sembra aver avuto origine nel Vecchio Mondo, più che nel Nuovo.
Nella maggior parte di queste forme più evolute, alle quali si attribuisce spesso il nome comune di ruminanti, infraordine Pecora, la suddivisione in camere dello stomaco è completa e la ruminazione generale; hanno di solito corna semplici e ramificate, in relazione alla specie; le dita laterali, sono ridotte, benché possano rimanerne tracce, sotto forma di piccole protuberanze “sessili”, aderenti al tessuto; le lunghe ossa, che sussistono nella porzione superiore del piede, si saldano in un unico osso, “l’osso cannone”; i denti anteriori della mascella superiore (gli incisivi), scompaiono.
Le forme primitive, che portarono a quelle attuali più evolute, compaiono nell’Oligocene d’Eurasia. I loro discendenti diretti, ancora vivi attualmente, sono i piccoli Tragulidi (Tragulidae), dei tropici del Vecchio Mondo. Poco più grossi di una lepre, hanno tutto l’aspetto di un cervide in miniatura, ma non hanno corna e sono più primitivi dei ruminanti veri e propri, per vari caratteri, fra cui il mantenimento di dita laterali, complete anche se minuscole. I ruminanti veri e propri si sono sviluppati in quattro famiglie: due hanno conservato le abitudini ancestrali e sono rimaste nelle foreste nutrendosi di foglie e germogli, e due sono diventate mangiatrici d’erba, nelle pianure scoperte.
Delle prime famiglie, quella dei Cervidi (Cervidae) è la più diffusa; l’altra famiglia dei ruminanti mangiatrici di foglie è quella dei Giraffidi (Giraffidae).
In realtà, alcuni biologi tassonomisti, considerano una terza famiglia di ruminanti, che ha adottato questo regime di nutrizione, che è quella dei Moschidi (Moschidae); altri scienziati la inseriscono ancora, o la inserivano nei Cervidae, a cui afferisce un unico genere Moschus, considerato un cervide più primitivo.
Tornando ai Cervidae, tale famiglia, nacque da un nucleo ancestrale di ruminanti primitivi, noto a partire dal Terziario; alla fine del Miocene, cominciano a comparire i cervidi veri e propri, che si diffusero in tutta l’Eurasia e raggiunsero infine le Americhe.
I cervidi, essendo rimasti mangiatori di foglie, hanno mantenuto denti a corona bassa. Alcuni piccoli cervidi, sono privi di corna, ma la maggior parte ha acquistato organi che sono chiamati corna o palchi, ma che in realtà sono escrescenze ossee ramificate della fronte, ricoperte durante il loro accrescimento dal “velluto”, una pelle delicata, a sua volta rivestita di una fitta peluria.
Queste corna sono presenti nei cervidi solo negli esemplari maschi (carattere di dimorfismo sessuale stagionale-transitorio) e sono soggette ad una ciclica caduta e ricrescita ad opera degli ormoni androgeni, che a loro volta vengono secreti dai testicoli, ciclicamente, per effetto dell’alternarsi delle stagioni, e portano il maschio riproduttore ad entrare in calore con l’arrivo della primavera. Lo schema è il seguente: annualmente, una volta raggiunta la maturità sessuale, i maschi montano i palchi durante la stagione invernale, quando fanno vita solitaria e riparata dal branco. Ogni anno le corna sono sempre più ramificate, perché spunta un nuovo pugnale in prossimità di un nodo. Ad ognuno di questi corrisponde dunque un anno d’età in più.
All’avvicinarsi della primavera, questi palchi, che nel Cervo nobile (Cervus elaphus) possono raggiungere, negli esemplari più anziani, anche i cinque metri di lunghezza, perdono il velluto che li riveste, e possono quindi essere utilizzati per duellare con un competitore, per contendersi la femmina in estro.
Ma il tutto avviene tramite combattimenti più o meno ritualizzati, accompagnati da intensi bramiti.
Quando il vincitore si è accoppiato, abbandona il branco, cui aveva, come gli altri maschi, fatto ritorno per riprodursi.
Ora i palchi non sono più necessari, diventano anzi un ostacolo per fare ritorno alla vita isolata nel bosco, lontano dal branco. Cadranno presto e lo stesso ciclo si ripeterà l’anno successivo.
Nei boschi frequentati dai cervi, è quindi facile trovare sia il velluto che ricopre i palchi, che i loro resti.
Tali corna, essendo piene, portano a definire questi animali come “pienicorni”.
La seconda famiglia, come accennavo prima, dei ruminanti mangiatori di foglie è quella dei Giraffidi (Giraffidae), anche lei originaria del Vecchio Mondo, dove è rimasta confinata nel continente Africano. La forma più nota è beninteso la Giraffa (Giraffa camelopardalis), con tutte le sue razze o sottospecie e le varietà, in relazione al manto ed al luogo d’origine. Questo gruppo, si evince dai fossili, non è chiaramente distinguibile, prima del Pliocene, dagli altri ruminanti.
La giraffa, il più alto mammifero terrestre, si nutre delle foglie e dei germogli degli alberi, in particolare delle Fabaceae, come l’ Acacia tortilis, sfruttando il suo lungo collo e le lunghe zampe posteriori su cui poggia, che le permettono di raggiungere la ragguardevole altezza di sei metri e più, per un peso di due tonnellate.
Sin dalla fine del secolo XIX, come sappiamo, si vociferava (da leggende dei Pigmei Negrilli Aka/biaka, che vivevano e vivono nelle foreste vergini della Repubblica del Congo e della Repubblica Centroafricana, in Africa centrale) dell’esistenza di quello che veniva chiamato il cavallo dei pigmei.
Lo zoologo, giornalista ed esploratore americano Sir Henry Morton Stanley, ascoltando tali racconti, durante una sua spedizione nel 1888-1889, scoprì alcune pelli che riconducevano a questo misterioso e leggendario animale.
Spedì tale pelli a Oxford, al direttore del Museo di Storia Naturale, il biologo zoologo Harry Johnston, il quale confermò che non erano un falso.
Lo zoologo di Oxford decise allora di scovare, con un spedizione scientifica, questo animale criptico e nel 1902 catturò il primo esemplare di quella che si rivelò essere una seconda specie di Giraffidae, la Okapia johnstoni.
Questa seconda giraffa, di dimensioni minori, è una forma più simile (quindi più arcaica) ai tipi estinti.
Entrambe le specie, hanno delle corna di piccole dimensioni in differente numero, chiamate “esostosi”, che sono in realtà delle piccole escrescenze ossee ricoperte di peli, piantate sul capo; tuttavia alcuni rappresentanti ancestrali estinti, ne possedevano di ramificate.
Delle due famiglie di ruminanti mangiatori d’erba, gli Antilocapridae ed i Bovidae, la meno importante è la prima, che si è evoluta nell’America settentrionale. Il solo rappresentante vivente di questa famiglia è l’Antilocapra o Pronghorn o Antilope americana (Antilocapra americana), che vive nelle pianure del West. Questo grazioso animale ha, come i rappresentanti del gruppo parallelo dei Bovidi (Bovidae) del Vecchio Mondo, denti con corona alta, adattata alla masticazione dell’erba.
Le corna, sono di tipo particolare: all’interno si trova una punta ossea che, come nel caso dei bovidi, è permanente e non caduca, né ramificata.
Quest’osso è ricoperto di un astuccio di vera sostanza cornea, in parte biforcata, che, contrariamente alle corna dei bovidi, cade ogni anno.
Il pronghorn è quindi un animale tipicamente americano, sui generis, che rifiuta di integrarsi nelle caratteristiche degli altri rappresentanti del gruppo degli universa Pecora.
I primi rappresentanti di questo gruppo di antilocapridi, comparvero nel Miocene, quando si svilupparono per la prima volta abbondanti praterie.
Un certo numero di generi di questa famiglia abbondò nelle praterie americane verso la fine del Terziario e anche nel Pleistocene, Quaternario; la riduzione del gruppo ad una sola specie sopravvissuta, è dovuta molto probabilmente alla sua eccezionale capacità di resistere alla concorrenza del Bisonte americano (Bison bison), invasore pleistocenico proveniente dall’Asia, che dilagò in mandrie enormi per le praterie americane, con milioni di capi, dalla fine del Pleistocene fino alla prima metà del XIX secolo.
L’ultima e più importante famiglia di ruminanti, e quindi degli ungulati, è quella dei Bovidi (Bovidae), che comprende attualmente non solo i bovini del genere Bos, ma anche il Bisonte, sia americano (Bison bison), che europeo (Bison bonasus), il Bue muschiato (Ovibos moschatus), le pecore, le capre e una moltitudine di altri animali, diversi gli uni dagli altri, raggruppati generalmente sotto il nome di “antilopi”.
Sono questi ultimi, nel Vecchio Mondo, gli erbivori corrispondenti ai pronghorn del Nuovo Mondo; ma hanno avuto un successo evolutivo e radiativo molto più ampio.
Il carattere tipico dei bovidi è la presenza di corna, che, contrariamente ai cervidi, non cadono e sono cave, per cui questi animali sono definiti “cavicorni”.
Queste corna sono organi ricurvi, mai ramificati, non caduchi, appunto, formati da una parte interna ossea e da un astuccio esterno corneo. Come le antilocapre dell’America settentrionale, i bovidi mangiatori d’erba, comparvero nel Miocene contemporaneamente alle praterie.
Nel Pliocene erano aumentati notevolmente, tanto in numero di specie che d’individui, ed alcune decine di forme di antilopi abbondavano nelle pianure d’Europa e d’Asia.
In seguito alle glaciazioni del Pleistocene diminuirono molto in numero nelle regioni nordiche e proprio nelle pianure africane, si devono cercare oggi questi bovidi, nel pieno del loro fulgore evolutivo, sotto forma di una grande quantità di specie, ancora molto numerose a dispetto del disfacimento che l’uomo ha come sempre indotto, mediante la caccia, l’inquinamento e l’agricoltura.
I buoi muschiati artiodattili artici, si sono adattati al freddo polare.
Eccezion fatta per quest’ultimi, solo alcuni bovidi hanno raggiunto il Nuovo Mondo; si tratta di animali in grado di vivere in climi relativamente freddi, come le pecore selvatiche dell’Alaska e delle Montagne Rocciose, le capre delle nevi e il bisonte che, avendo raggiunto durante il periodo interglaciale del Pleistocene l’America, ne popolò rapidamente le pianure.