Dalla preistoria a casa nostra. Come allevare le tartarughe in acquario.
Testo © Giuseppe Mazza
Quando, circa 2 milioni d’anni fa, l’uomo muoveva i suoi primi passi, le tartarughe erano già nate da almeno 200 milioni d’anni.
Alcune, come l’Archelon ischyros e il Colossochelys atlas, superavano i 6 m; una aveva i denti, ma nell’insieme non erano poi tanto diverse dalle attuali.
Veri e propri “fossili viventi”, le tartarughine che teniamo in casa si direbbero appena uscite dal giurassico o dal cretaceo. Sta di fatto che dopo aver scoperto la “corazza”, una cassa ossea rivestita di pelle e placche cornee, questi rettili si sono guardati intorno soddisfatti, e non hanno sentito più il bisogno di cambiare.
Ho visto un giaguaro affamato, beffato da una tartaruga che, deposte le uova, se ne tornava tranquillamente al mare, senza preoccuparsi troppo degli affilati denti e degli artigli dell’imbarazzatissimo felino. Sottovalutare i testudinati è un grave errore, e osservandoli ci si rende conto che pur avendo un cervello molto piccolo (se asportato certe specie vivono anche un mese), sono più intelligenti di quanto, a prima vista, non sembri.
Riconoscono località e persone, e fanno tesoro dell’esperienze. Si scopre che, lungi dall’esser lente, le tartarughe acquatiche guizzano veloci come pesci, e che le terrestri percorrono distanze enormi.
I luoghi comuni appaiono inesatti, falsi come il famoso sofisma del filosofo greco Zenone, secondo cui il piè veloce Achille non avrebbe mai potuto raggiungere la tartaruga che gli correva davanti. Tutte le civiltà antiche, del resto, hanno sempre lodato il comportamento di questi animali. Nelle leggende africane la saggezza delle tartarughe vince l’ottusa stupidità dell’ippopotamo, e in Asia, per la longevità e l’ardore amoroso, sono il simbolo stesso della gioia di vivere.
Una tartaruga in casa, da giocattolo, può diventare allora un momento educativo, di riflessione, di contatto con la natura.
Perchè non ci rimorda la coscienza, perchè le tartarughine acquatiche non muoiano come sempre, in silenzio, abbandonate su un balcone o in un’angolo, dobbiamo però anzitutto conoscerle.
Partiamo dalla comunissima Pseudemys scripta, venduta in tutti i negozi d’acquari. Quanti sanno che può vivere decenni, che si nutre anche di vegetali e, diventando adulta, raggiunge i 30 cm ?
Diffusa dagli Stati Uniti orientali al Messico, con numerose sottospecie, fra cui la notissima Pseudemys scripta elegans dai caratteristici disegni ad “occhio di pavone” sul carapace, che vive negli stagni e nei corsi d’acqua molto lenti.
Bruca le piante galleggianti e va a caccia d’insetti, chioccioline, girini e piccoli pesci. Al mattino, e verso sera, sonnecchia digerendo al sole sul bagnasciuga. Si sbarazza, seccando, d’eventuali parassiti acquatici, ma evita il caldo del mezzogiorno. Se la temperatura scende sotto i 10°C, scava nella melma un buco, vi si infila, e passa in letargo l’inverno. Si accontenta, come tutte le tartarughe acquatiche, dell’ossigeno assorbito dalla pelle, dai villi vascolarizzati della bocca e soprattutto dagli speciali “sacchi anali” che, rivestiti di tessuti finemente irrorati, costituiscono una sorta di “polmone acquatico”.
Nella scelta di un terrario bisognerà tener presenti tutte queste cose. Le apposite “casette con piscina” in plastica, andranno forse bene per i primi tempi, ma poi la vostra tartaruga avrà bisogno di un’ambiente più adatto. Se pensate a un box in legno, con davanti un vetro scorrevole, consiglio di farlo su misura di una bacinella rettangolare, alta circa 10 cm, da riempire di ghiaia. Vi infosserete un riscaldatore e due scodelle colme d’acqua. In una, più piccola, offrirete il cibo, che di solito viene consumato sott’acqua, e l’altra servirà alla tartaruga per nuotare. In questo modo eviterete d’inquinare e ripulire, ogni giorno, la “piscina”.
Un’altra soluzione può essere un acquario con zattere, rocce, e tronchi emergenti, o una grande vasca di cemento per verande, dalle pareti ripide, con al centro un’isolotto dove i nostri piccoli ospiti si scalderanno ai raggi del sole o di una lampada.
Le tartarughe acquatiche accettano volentieri pezzettini di carne magra, ma soprattutto è importante dar loro del calcio, perchè, crescendo, devono costruire la corazza.
Al posto di pregiati “filetti”, che mangeremo noi, daremo quindi dei pesciolini da frittura o dei frammenti con lische, evitando, naturalmente, le grosse spine. Utilissimo è anche il solito osso di seppia, che in genere rosicchiano con piacere.
Di tanto in tanto, se le amiamo, andremo anche in cerca di comuni lombrichi : vere ghiottonerie, ricche di calcio.
Verdura cruda o lessa, ben lavata per evitare l’accumolo d’insetticidi, e pezzettini di frutta integreranno la dieta col necessario apporto di vitamine.
Le malattie più frequenti delle tartarughine sono infatti il rachitismo, per mancanza di calcio e ultravioletti, e l’avitaminosi. Bisognerà, ovviamente, evitar loro anche i colpi di freddo, responsabili della così detta “tubercolosi delle tartarughe”. I soggetti colpiti non mangiano più, galleggiano col corpo obliquo, e sono irrimediabilmente perduti.
Dopo quattro anni, quando le nostre Pseudemys saranno diventate adulte, avranno bisogno anche di una zona emersa, sabbiosa, per deporre e sepellire le uova (in genere da 7 a 10) che dovremo raccogliere e mettere, sotto sabbia, in un’incubatrice (realizzabile con un termoforo messo al minimo o un riscaldatore piatto per terrari).
Se non ci sentiamo di fare tutto questo, vorrà dire che per noi la tartaruga è un soprammobile, e allora sarà meglio lasciarla al negozio e prenderne una in ceramica o d’argento.
Alla stessa famiglia delle Pseudemys, con esigenze analoghe, appartengono anche l’Emys orbicularis (25 cm), la tartaruga palustre italiana, e molte graziosissime tartarughe Nordamericane come la Chrysemys concinna hieroglyphica (30 cm) col carapace decorato da fantasiosi disegni concentrici, simili a geroglifici, la Chrysemys picta dorsalis (15 cm) dalla vivace striscia dorsale gialla-rossa, e la Graptemys oculifera (21 cm) caratterizzata da una carena dentata.
Dagli USA provengono anche la Tartaruga del fango (Kinosternon subrubrum) dalla piccola corazza (12 cm) con lobi articolati, chiudibile davanti e dietro, e la grintosa, robustissima Tartaruga muschiata minore (Sternotherus minor) di appena 10 cm.
Potrebbe essere l’ospite ideale dei terrari, ma come tutti gli Sternotherus emana dalle ghiandole anali un’intenso olezzo, che ha valso loro l’appellativo, certo poco incoraggiante, di “pentole puzzolenti”.
Un’altra bella tartaruga acquatica, la Pelomedusa subrufa, molto apprezzata dagli africani perchè fa stragi di ditteri, raggiunge i 25 cm. Quando gli stagni in cui vive si prosciugano, cade in un letargo estivo e aspetta, sepolta viva nell’argilla, la stagione delle piogge.
Da Sumatra e dal Borneo giunge poi spesso la Geoemyda spinosa (25 cm) che presenta, da giovane, delle curiose sporgenze spiniformi.
Un discorso a sè meritano le tartarughe a carapace molle come il Trionyx spiniferus (45 cm) del Nordamarica e il piccolo, meno mordace Trionyx sinensis tuberculatus (20 cm), proveniente dalla Cina centrale e Taiwan.
L’impalcatura ossea della corazza è qui rivestita soltanto da una spessa pelle, dura come il cuoio. Vivono quasi sempre in acqua, e affiorano solo di tanto in tanto, per respirare, con la punta del muso. Il collo, relativamente lungo e mobile, permette d’afferrare rapidamente, senza muoversi, gli aggressori e le prede, ma il “primato” in questa “specialità” spetta alla Chelodina longicollis, la Tartaruga a collo di serpente australiana, che raggiunge i 25 cm, più quasi altrettanti di collo.
Di tanto in tanto capita nei negozi anche la Tartaruga azzannatrice (Chelydra serpentina), comune nei fiumi e nei laghi del Nordamerica, e la famosa Mata mata (Chelus fimbriatus), dell’America centro- meridionale, simile a una foglia secca galleggiante. Animali curiosi, tipicamente carnivori, dotati di un certo “temperamento” che superano i 40 cm e vanno perciò lasciati, almeno d’adulti, agli acquari pubblici.
ARGOS – 1988
→ Per nozioni generali sui Testudines vedere qui.
→ Per apprezzare la biodiversità delle TARTARUGHE cliccare qui.