Le conchiglie possono assumere le forme più incredibili con una gamma infinita di colori. Formule matematiche per i disegni.
Testo © Giuseppe Mazza
Quasi un miliardo di anni fa, quando la terra ferma era ancora senza vita, ed in mare a parte le alghe non c’era un gran che, a un “vermetto”, forse un antenato degli attuali turbellari o dei nemertini, venne in mente di migliorare la propria dieta, rendendola più sostanziosa.
Per far ciò bisognava sviluppare il tubo digerente con gli organi connessi, e per trasportare le voluminose viscere fu necessario rinforzare i muscoli ventrali, che presero ben presto la forma di un “piede” su cui strisciare.
Nacque così il primo gasteropode (dal greco “camminatore sulla pancia”) ed a partire dal Cambriano, cioè da circa 570 milioni di anni fa, troviamo dei fossili di conchiglie. Sono “case”, ci si è subito chiesti, o “scheletri esterni” come quelli degli insetti e dei crostacei ?
Da un punto di vista scientifico sono scheletri, visto che il guscio, come le nostre ossa, ha una funzione di sostegno. Ma a volte manca del tutto, e se la conchiglia non è indispensabile e serve sostanzialmente da rifugio, forse non è poi tanto sbagliato e infantile parlare anche di “case”.
Quando l’animale ha chiuso le valve o ritirato l’opercolo è come in una solida fortezza, una cassaforte che ben pochi predatori riescono ad aprire.
Per farlo occorre molto tempo e pazienza, ma naturalmente non mancano anche qui gli ” scassinatori “. Le stelle di mare, per esempio, aprono i poveri bivalvi con migliaia di ventose e un gruppo di molluschi carnivori, i naticari, sono autentici specialisti della “banda del buco”.
Noti a Napoli come “maruzze” o “maruzzelle”, immobilizzano le vittime avvolgendole col piede prensile, e conoscendo a fondo i segreti del guscio, prima l’ammorbidiscono con un acido solvente e poi l’attaccano con una sorta di grattuggia : la radula. È questione di minuti o di giorni, ma alla fine riescono a praticarvi un foro, vi introducono la proboscite e divorano la preda, lasciando a ricordo dell’impresa le ” conchiglie col buco ” che troviamo poi sulle spiagge.
Ma torniamo al nostro gasteropode primitivo.
Mentre i muscoli ventrali si trasformavano in un piede, anche la pelle sul dorso evolveva inspessendosi. All’inizio doveva secernere, come certi turbellari attuali, solo uno sgradevole magari urticante muco difensivo, ma poi divenne un organo importante, il “mantello”, capace di creare una sostanza durissima, inglobando in un particolare muco, la conchiolina, del carbonato di calcio.
Nelle conchiglie questo può cristallizzare in due forme: la calcite (cristalli romboedrici, scalenoedrici e prismatici del sistema trigonale) e l’aragonite (cristalli prismatici allungati del sistema rombico), responsabile dei rivestimenti madreperlacei.
Secondo la natura e l’aggregazione dei cristalli, gli esperti riconoscono otto tipi di “strutture” (in ogni conchiglia se ne trovano di solito due o tre, disposti a strati), ma in pratica, semplificando, si può dire che come i monumenti delle nostre città, le conchiglie sono fatte sostanzialmente di marmo.
Ma come può un animale primitivo come un mollusco creare strutture tanto complesse, come si formano i rilievi scultorei, i colori e gli stupendi disegni delle conchiglie ?
Sulla forma tutti gli studiosi sono concordi : la spirale logaritmica, a prima vista complicatissima, secondo cui si avvolge la maggior parte delle conchiglie è in realtà, biologicamente, la soluzione evolutiva più semplice da codificare, quella che richiede il minor sforzo proteico- cromosomico.
I rilievi, i colori e i disegni lasciano invece più perplessi : sappiamo perfettamente come si formano, ma non se ne intuisce sempre il perchè.
Le spine del Murex pecten, dell’Acanthocardia aculeata e dello Spondylus crassisquama hanno indubbiamente una funzione difensiva, ma come spiegare, per esempio, al di là di un’incoprensibile fatto estetico, i riflessi madreperlacei ed i meravigliosi rilievi interni di una Haliotis scalaris o l’incredibile perfezione nelle sculture e nei disegni dell’Harpa major e di molte altre conchiglie che vivono sempre nascoste nella sabbia? Non a torto è stato detto che “con le conchiglie si corre il rischio di credere in Dio”.
Le nervature, i tubercoli, le spine e in genere i rilievi dipendono dall’attività diversificata e discontinua delle cellule del mantello che secernono il carbonato di calcio : dove la produzione è maggiore si formano i rilievi e dove è scarsa il guscio si fa più sottile. Ai disegni e ai colori provvedono altre cellule del mantello, dette cromogene, che concentrano i coloranti fissandoli nei cristalli di calcite.
Se la loro attività è continua e coprono tutta la conchiglia, la colorazione è uniforme, se sono sempre attive ma disposte in zone ben separate, si ottengono delle strisce, e se poi si mettono a funzionare ad intermittenza o con intensità variabile, nascono i tratteggi, le macchie, i cerchi, o gli incredibili disegni triangolari di molte specie del genere Conus.
Quando le cellule cromogene mancano o sono inattive la conchiglia è naturalmente bianca. I pigmenti usati sono quattro : i carotenoidi, che danno i gialli, gli indigoidi, responsabili dei blu e dei rossi, le melanine, che creano numerose sfumature dal nero al grigio, e le porfirine, materia base dei verdi.
Possono essere prodotti direttamente dall’animale, ma spesso il mollusco li elabora partendo dai coloranti che trova nel cibo. Ne consegue che conchiglie della stessa specie, che vivono in ambienti diversi, possono assumere tinte diversissime.
Un vistoso esempio in merito ci è offerto dalla Polymita picta, una specie terrestre arboricola di Cuba, il cui guscio può essere in pratica di tutti i colori.
In passato, quando nella classificazione ci si basava più sulla conchiglia che sull’animale, e la specie era vista come l’insieme di certi caratteri statici, immutabili dalla creazione, e non come la manifestazione di una continuità evolutiva, una simile variabilità avrebbe certamente dato origine a decine di specie.
È avvenuto con tantissime conchiglie, spesso differenziate ad arte dai commercianti, solo per renderle più rare e farne salire il prezzo. Oggi dalle oltre 200.000 “specie” di un tempo, si è scesi a poco più di 100.000 molluschi così divisi : 80.000 gasteropodi (conchiglia, talora ridotta o assente, avvolta a spirale su un asse centrale detto columella), 20.000 bivalvi (conchiglia formata da due parti, dette valve), 1.000 scafopodi (conchiglia a forma di zanna d’elefante), 1.000 poliplacofori (conchiglia formata da otto placche calcaree articolate), 700 cefalopodi (conchiglia interna, spesso ridotta o assente, con l’eccezione delle femmine di Nautilus che ne possiedono una esterna, abbandonata periodicamente con le uova), 200 aplacoferi (senza conchiglia) e qualche monoplacoforo (conchiglie piatte e coniche, appartenenti a una classe, ritenuta estinta da 350 milioni di anni, con poche specie viventi scoperte, a partire dal 1952, in acque profonde).
Ma quanto vale una conchiglia e può essere un buon investimento ?
Anche quello delle “conchiglie affare” è un mito da sfatare.
Raramente un pezzo supera 50.000 euro, e nei tempi moderni la maggior parte degli investimenti malacologici si sono rivelati un vero fiasco.
Il rarissimo Epitonium scalare, che i cinesi arrivavano al punto di falsificare con pasta di riso, con l’estendersi della pesca a nuove zone si è rivelato comunissimo, e lo stesso è accaduto per la famosa Tatcheria mirabilis, simbolo per secoli in Giappone della gloriosa ascesa al trono imperiale.
Per contro il collezionismo sfrenato dei piccoli amatori ha distrutto non poche stazioni, con conseguenze difficilmente valutabili per le altre specie e l’ambiente.
Per dare un’idea di questo assurdo traffico basta dire che fino a poco fa in Australia venivano raccolti almeno 50.000 esemplari all’anno di Charonia tritonis, una bella conchiglia, facilmente smerciabile, che supera i 40 cm.
Oggi molte specie sono in teoria protette, ma l’inquinamento marino sta compiendo stragi ben peggiori. Speriamo che il buon senso prevalga, e di poter ancora passeggiare su una spiaggia per la gioia semplice d’ascoltare in una conchiglia il rumore delle onde, ricevendo, perchè no, dai “sottosviluppati” molluschi, una lezione di perfezione, d’umiltà e di bellezza.
SCIENZA & VITA NUOVA – 1987
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