Piante d’appartamento: le specie più belle e facili

Il verde in una stanza. Le piante più facili. Si accontentano della luce di casa, tollerano gli ambienti chiusi, richiedono solo annaffiature sporadiche. Ecco le specie ideali.

 

jpg_appartamento1.jpg

jpg_appartamento2.jpg

jpg_appartamento3.jpg

jpg_appartamento4.jpg

jpg_appartamento5.jpg

PEPPINO.gif
Testo © Giuseppe Mazza

 

Pollice verde ? Macché. Parliamo semmai di buon senso.

Quando compriamo un pesce d’acquario, un cane, un gatto, un criceto o un uccellino, la prima domanda è : “Cosa mangia ?” e ci preoccupiamo, accessoriando la vasca, la cuccia, o la voliera, d’ospitarlo nel migliore dei modi.

Lo stesso dobbiamo fare con le piante.

Anche se servono ad abbellire la casa, non sono quadri o sculture, ma esseri viventi come noi, anzi dei nostri “lontani parenti”.

L’esame degli aminoacidi animali e vegetali, sempre gli stessi, presenti per di più in una certa forma; la struttura del sistema di sintesi proteica, e l’universalità del codice genetico, mostrano infatti che la vita sulla terra è nata una sola volta. Il primo animale, quel nostro lontano antenato, era una pianta. Perse la clorofilla, e non potendo più fare la fotosintesi, combinare cioè l’acqua e i minerali prelevati dal suolo con l’anidride carbonica dell’aria, per trasformarli con l’aiuto del sole in materia vivente, si mise a mangiare le altre piante che gli stavano attorno.

E se il nostro primo rapporto col mondo verde fu di violenza, e il destino delle piante è finire direttamente o indirettamente in bocca agli animali, non vuol dire che dobbiamo trattarle da soprammobili, e condannarle a morir di sete, di fame, di caldo o di freddo.

Le piante nascono, crescono, lottano, fanno l’amore come noi, e mettono al mondo i figli. Si ammalano, muoiono, e forse soffrono e pensano. Se le vogliamo in forma fra le pareti domestiche, dobbiamo anzitutto smettere di considerarle “vegetali”, una parola carica di valori negativi, che sfiora spesso l’idea d’inanimato, e provare a guardarle come degli “animali diversi”.

Ed anche se alla vigilia delle vacanze non troveremo mai per strada dei cartelloni che invitano a “non abbandonate i Filodendri”, solo quando capiremo che condannare a morte una pianta è come uccidere un cane o un gatto, saremo dei pollici verdi.

Ciò premesso, prima di comprare una pianta, mi chiedo anzitutto se posso permettermela. Se in casa ho il posto adatto, con la luce, il calore, il ricambio d’aria, e l’umidità richiesta da quella specie.

Le piante d’appartamento, costrette per definizione a vivere lontano dal sole, provengono infatti in gran parte dal sottobosco delle foreste tropicali, dove la luce è analoga a quella domestica, ma la temperatura non scende quasi mai sotto i 18 °C, e l’umidità raggiunge livelli altissimi.

Nei millenni, hanno inventato non pochi espedienti per difendersi dall’eccesso d’acqua sulle foglie, ma non pensando di finire in salotto alla soglie del 2000, sono in genere del tutto inadatte a fronteggiare i colpi di freddo di una finestra aperta in pieno inverno, il fumo, lo smog, e soprattutto l’aria secca dei radiatori.

E a meno d’avere una veranda luminosa, e molto tempo disponibile per frequenti nebulizzazioni e il necessario controllo termico, è meglio non cedere nella tentazione consumistica di specie spettacolari ma effimere, e optare per delle “piante facili”, in grado d’accompagnare per anni la nostra vita fra le pareti domestiche.

Vediamone alcune di coltura semplicissima, adatte a varie situazioni.

La Sansevieria trifasciata, di cui esistono numerose varietà, più o meno alte, con foglie striate orizzontalmente, maculate, o a bordi gialli, è certo fra le più idonee agli ambienti moderni.

Originaria dell’Africa sud orientale, cresce bene al sole, in piena luce, ma anche a 2-3 m dalle finestre, dove si accontenta di un’annaffiatura ogni 10-15 giorni, ed una luminosità di appena 500 lux. Regola la produzione di clorofilla sulla luce disponibile, diventando un po’ alla volta verde scura negli angoli più bui; può essere abbandonata per settimane senza una goccia d’acqua; sopporta facilmente d’inverno minime di 10-12 °C; accetta l’aria secca, inquinata dal fumo, e muore in genere solo per “affogamento”, quando la si bagna ostinatamente tutti i giorni, in vasi mal drenati.

La Kentia (Howea forsteriana), originaria dell’isola di Lord Howe ad est dell’Australia, sopporta condizioni analoghe. Per fare il suo paio di foglie all’anno, si accontenta di poca luce e annaffiature sporadiche, e l’unica “manutenzione”, dato il lento rinnovo fogliare, e la mancanza di piogge nelle dimore umane, è un periodico lavaggio alla spugna.

Varie Dracaena, provenienti dall’Africa tropicale, si rivelano ugualmente rustiche, ma le forme bicolori, tipo la D. deremensis, per aumentare la fotosintesi sono costrette in condizioni limite a perdere o attenuare, come la Sansevieria, le loro belle striature bianche o gialle, che se hanno un indubbio valore estetico, sono un grave handicap per piante ridotte alla fame dalla mancanza di luce.

E analogo è il discorso per molte specie a foglie variegate, tipo le Dieffenbachia, originarie dell’America tropicale, che pur sopportando come le precedenti l’aria secca dei termosifoni e temperature minime invernali di 14-16 °C, perdono gran parte delle loro attrattive quando la luce non supera i 600-700 lux.

Classici d’appartamento sono anche i Ficus, fra cui si distinguono il Ficus elastica, il Ficus lyrata, e il Ficus deltoidea, addobbato da curiosi frutti sferici che lo rendono simile a un’albero di Natale (il celebre Ficus benjamina non è fra i più forti, perché, pena la perdita delle foglie, ha bisogno di tanta luce, alta umidità ambientale, ed una buona aerazione), e molte Aracee come i Philodendron cordatum e Philodendron scandens Philodendron hederaceum, originari del Brasile e Portorico, e l’ ‘Emerald Queen’, un ibrido dalle origini incerte.

Tipiche piante del sottobosco, abbarbicate ai tronchi, accettano condizioni di luce difficili, intorno ai 500 lux, sopportando minime invernali di 10-12 °C e la mancanza d’umidità atmosferica, ma crescono meglio nebulizzate o con frequenti “fleboclisi” al loro supporto muscoso. E analoghe considerazioni valgono per la Monstera deliciosa che reagisce alla mancanza di luce riducendo le perforazioni, il diametro, e la segmentazione fogliare.

Altre piante facili, meno note, sono il Syngonium podophyllum dell’America centro-meridionale, di coltura analoga ai filodendri, il Cissus rhombifolia, originario del Centroamerica, e il Cissus antarctica, di casa nelle foreste australiane.

Parenti della vite, queste piante dalle foglie eleganti e sottili, crescono bene anche in condizioni di luce precarie, formando, secondo il supporto, colonne o cespugli. Tollerano l’aria secca e minime intorno ai 10 °C, ma non deve mancar loro l’acqua d’estate, quando sono in pieno periodo vegetativo.

Chi ha una veranda non riscaldata, con notevoli crolli termici fino a 5 °C, potrà scegliere fra la Pianta della perpetue (Aspidistra elatior), originaria della Cina e di moda nei freddi palazzi delle nostre nonne, l’ Asparagus sprengeri, la Fatsia japonica, e la Tradescantia fluminensis, che in barba al poco attraente soprannome di “Miseria”, si presta ad ornare finestre e vasi sospesi con spettacolari cascate bianco-verdi.

Chi invece cerca una compagna “aristocratica”, poco nota e tollerante dei radiatori, la troverà nella Rhoeo spathacea Tradescantia spathacea, originaria del Messico. Accanto a una finestra, con temperature minime non inferiori ai 10 °C, sforna una dopo l’altra, per anni, lucide foglie a spada, lunghe anche 30 cm, con la pagina inferiore di un bel viola intenso, che rende al confronto insignificanti i suoi graziosi fiorellini bianchi.

Originale, quando la luminosità lo consente, può essere anche un salotto ornato dai papiri (Cyperus alternifolius e Cyperus diffusus), che possono essere coltivati senza sforzo, immergendo per qualche centimetro il vaso in un contenitore con dell’acqua.

Analogamente molte piante “difficili”, possono diventar “facili” usando dei piccoli accorgimenti.

Soddisfatte le necessità termiche e luminose dei nostri ospiti, l’umidità si può infatti incrementare in vari modi.

Un primo metodo consiste nel riunire i vasi in una fioriera di plastica, colma di palline d’argilla espansa annaffiate di tanto in tanto. L’acqua si raccoglie in basso, come in una cisterna, ma non raggiunge il livello dei vasi, e senza provocar marciumi evapora fra le palline, creando, frenata come nelle foreste dalle foglie, un microclima umido.

E con qualche nebulizzazione di sostegno, potrete anche ospitare variopinte Bromeliacee di grossa taglia, come il Nidularium fulgens o la Neoregelia carolinae, specie se avrete l’avvertenza di somministrar loro, di tanto in tanto, un po’ d’acqua nel naturale “pozzetto di riserva”, posto al centro delle eleganti strutture a rosetta.

Se questa umidità non basta, e le piante sono di dimensioni modeste, tipo la Violetta africana (Saintpaulia ionantha), la Fittonia argyroneura, i Cryptanthus, la Tillandsia cyanea, e molte piccole Vriesea, Aechmea e Guzmania, si può optare per delle ingegnose mini serre a boccia o a bottiglia di gusto squisitamente inglese.

Quando l’apertura è stretta, o date le scarse esigenze d’aerazione la si chiude per lunghi periodi con un tappo, basta una modesta annaffiatura per capillarità una volta al mese. Per non sporcare i vetri (ma tutti i metodi sono buoni), si usa infatti introdurre una corda imbevuta d’acqua, fissata a un supporto rigido e collegata ad una caraffa.

Un’altra astuzia consiste nel collocare il vaso delle piante dotate di radici aeree in un “isolotto di mattoni” posto al centro di un piccolo bacino cui non si farà mai mancare l’acqua. Le radici aeree berranno come spugne nel fossato, mentre le terrestri, all’asciutto, non rischiano marciumi.

Se avete un acquario, potrete anche introdurle come tubi nella vasca, col triplice vantaggio d’irrorare la pianta, nutrirla, e purificare l’acqua dai rifiuti del metabolismo dei pesci. Sviluppano subito delle candide radici sommerse, e in breve, se la vasca è adeguata, non avrete più nemmeno bisogno della terra e del vaso. Nel mio studio di Montecarlo, per dirne una, un banale Philodendron ha coperto senza sforzo in 16 anni, partendo da un ramo, due pareti con oltre 12 m2 di foglie.

Siamo così giunti, un po’ alla volta, a un metodo di coltura alternativo, detto “idroponico”, o in parole povere all’idrocoltura.

I presupposti sono semplici : l’elemento fondamentale per la vita del mondo verde non è la terra ma l’acqua. Il suolo fa da supporto e riserva di sostanze nutritive, ma è l’acqua a scioglierle e a renderle assimilabili. E dato che, come abbiamo visto per la clorofilla, molte piante si adattano spesso sorprendentemente a condizioni nuove, e sviluppano in questo caso speciali radici acquatiche esenti da marciumi, basta sostituire la terra con una soluzione di sali minerali, da rinnovare una volta al mese, e rimboccare il livello di tanto in tanto.

È l’uovo di Colombo : si può partire in vacanza abbandonando senza rischi le piante per settimane; si eliminano i parassiti di casa nei composti terrosi; e soprattutto si possono ospitare delle specie esigenti sul piano dell’umidità ambientale, che compenseranno le mancanze igrometriche dell’aria con un pompaggio supplementare alle loro radici acquatiche.

Fra le specie che meglio si prestano allo scopo vi sono in genere tutte le Aracee, le piante a “spadice”, a infiorescenze cioè riunite su una struttura cilindrica, affiancata da una grande brattea spesso colorata detta “spata”, tipo le Aglaonema, le Dieffenbachia, i Philodendron, gli Scindapsus, e soprattutto gli Spathiphyllum e gli Anthurium che, ben illuminati, arricchiranno per mesi la casa coi loro vistosi vessilli.

Accettano contente questa pratica anche le Cordyline, i Cissus, i Pandanus, le Dracaena, e il Chlorophytum comosum, un’altra illustre “pianta delle nonne”. Basta recuperare, da un amico o nei giardini, uno dei tanti getti che spuntano già radicati sugli stoloni, e metterlo con una griglia nell’acqua accanto a una finestra. Crescerà senza particolari cure a vista d’occhio.

Le piante da fiore possono vivere in appartamento ?

Per il 99,9 % dei casi la risposta è purtroppo negativa. La maggior parte delle allettanti proposte dei fioristi sono, per usare un eufemismo, “ornamenti temporanei della casa”. I fiori, gli organi riproduttivi delle piante superiori, richiedono infatti per svilupparsi l’intensa luce del sole, e tolte le piante a spadice, e le insignificanti corolle delle specie sopra indicate, a meno di metter su un’illuminazione accecante, da serra, con speciali lampade fluorescenti o a vapori di mercurio, è quasi impossibile assistere in casa a questi “lieti eventi” vegetali.

A chi possiede una veranda o una finestra luminosa, e cerca piante facili e perenni, in fiore quasi senza sosta, ho solo due consigli : le orchidee ibride del genere Phalaenopsis, in boccio anche 8 mesi all’anno, in cambio di un’annaffiatura settimanale e periodiche concimazioni liquide (ma attenti al fumo, che le uccide un po’ alla volta, come del resto fa coi proprietari), e la Begonia bambù (Begonia corallina e sue cultivar ed ibridi, come la Begonia ‘Picta Rosea’) a portamento arbustivo con fusti nodosi ed eleganti, simili a bambù.

Ancor prima di giungere alla ribalta degli anni ’90, seviziata e potata drasticamente ad “alberello”, per essere immolata al consumismo col nome di Tamaya, questa robusta specie brasiliana circolava da tempo con successo nei vivai di molte città europee.

In un ambiente ben illuminato, è in boccio da marzo-aprile a dicembre, accontentandosi di un’annaffiatura alla settimana e di un vaso di 30 cm, che ospiterà in breve una decina di fusti principali, alti anche 2 m, carichi di rami penduli e vistosi mazzi di fiori.

 

NATURA OGGI  – 1993